Kott, morfologia del tragico da Eschilo a Sharon Tate
Teatro classico In «Mangiare Dio», riproposto da Abscondita, lo studioso di teatro e attivista polacco Jan Kott elaborò un’intepretazione strutturale della tragedia greca: la cui «attualità» viene perennemente riattivata, come mostrano i fatti di cronaca
Teatro classico In «Mangiare Dio», riproposto da Abscondita, lo studioso di teatro e attivista polacco Jan Kott elaborò un’intepretazione strutturale della tragedia greca: la cui «attualità» viene perennemente riattivata, come mostrano i fatti di cronaca
L’opera capitale di Jan Kott sul teatro greco, The Eating of the Gods (Random House 1973), è un libro dalla genesi complessa. Iniziato a Varsavia nel 1966, fu completato dopo che l’autore ebbe lasciato la Polonia, chiedendo asilo politico in occidente. La fortunata traduzione italiana di Ettore Capriolo per Il Formichiere (1977) è apparsa più volte, e adesso la ripropone Abscondita: Mangiare Dio Un’interpretazione della tragedia greca («Aesthetica», pp. 242, euro 25,00). Nell’introduzione Kott offre al lettore, sin dalle prime linee, un criterio identificativo del tragico, ricorrendo a un episodio di attualità tratto da un articolo del New York Times del 29 dicembre 1971, sul campo profughi pakistano di Rangpur. È nelle parole della vedova bengalese Thakur Dasi – «…dicono che le persone che muoiono prematuramente diventano fantasmi. Io credo che il villaggio sia pieno di fantasmi» – che Kott rinviene «il principio generale della tragedia. Nel mondo tragico i morti ritornano. L’eroe tragico è solo fra la gente, forse perché vive, come Antigone, nel mondo dei morti».
È questo un tratto tipico dell’indagine di Kott sulla tragedia, la sua lettura sub specie contemporaneitatis: l’idea cioè che la «verità del mito» – per dirla con Kurt Hübner – consista in una perennità attuale, non consegnata a gelidi paradigmi sovrastorici, ma riattivata nella sintassi dell’esistenza, nella sua urgente presenzialità, nelle schiume di quel frangente fra l’oggi e le memorie individuali e collettive in cui la cronaca si fa storia. In quest’ottica Kott trasfondeva forse la sua esperienza di uomo europeo del Novecento. Polacco di origini ebraiche convertitosi al cattolicesimo, nato nell’anno dello scoppio della Grande Guerra e morto sul finire di quel 2001 che fra terrore e reazione dà inizio al nuovo disordine mondiale, Kott abbracciò il comunismo alla vigilia dell’occupazione nazista, fu partecipe della difesa di Varsavia, divenne, da direttore della rivista «Kuznica», uno dei capofila del realismo socialista salvo poi prendersi carico, nel 1956, del tentativo di emancipazione espresso dal cosiddetto ottobre polacco, finendo per rinnegare il partito e allontanarsi dalla Polonia.
Centrale nella sua opera è la ricerca della «più piccola unità strutturale dell’opposizione tragica: il tragema, modellato, come il mitema di Lévi-Strauss, sul fonema e sul morfema della linguistica»; tuttavia questo principio strutturalistico non rimanda a generici campi di forze dell’agire umano, bensì a «situazioni … assai più concrete: una madre uccide i suoi figli, un figlio uccide sua madre, un padre uccide suo figlio, una moglie uccide suo marito, un fratello uccide suo fratello, un figlio va a letto con la madre. Il re è il padre e l’unto del Signore; il regicidio è insieme parricidio e deicidio. Sono delitti che gridano vendetta al cielo. Ma nel mondo tragico è il cielo che li ordisce o semplicemente li impone». Come rappresentazione del mitema, il tragema traduce quest’ultimo in nucleo della struttura drammatica, cioè in un «quanto d’azione» teatrale. È così che si trasforma in gestualità e presenza la funzione del mito, per cui la mostruosità annidata nel tempo degli dèi e degli eroi permette agli individui storici di superarla. Nel tragema il singolo evento-tipo, in cui i morti tornano fra i vivi a nutrirsi di loro, diviene atomo scenico di catarsi.
È su questo principio che il libro di Kott fonda la sua campionatura in crescendo della geometria dei tragemi, a partire da alcuni esempi chiave: l’asse verticale delle vicende teogoniche di spodestamento/disconoscimento del padre/re celeste nel Promèteo di Eschilo; il triplice slittamento cognitivo, o inganno, per cui l’Aiace sofocleo viene condotto dalla follia al suicidio altruistico e al riscatto post mortem; il «dramma scandaloso» dell’Alcesti velata di Euripide, «ricco di veleni e di perfidia» nell’ambiguità ontologica che avvolge sia Alcesti, sospesa fra morte e gloria, sia Admeto, screditato e inabissato nella sua «vita non vita»; il quadrilatero di veleni che nelle Trachinie di Sofocle unisce Nesso, Deianira, Eracle e Iole, nel rappresentarsi della passione, morte e apoteosi di Eracle; infine l’atto tragico supremo al centro del dionisismo, l’atto di «mangiare dio» in immagine di vittima umana, retroscena mitologico delle Baccanti, con le figure gentili e atroci delle fanciulle inghirlandate a cui il dio concede, come liberazione ultima, la mera libertà di uccidere.
Qui ancora una volta, nella postilla a margine della cronaca, nel richiamo allo sparagmòs moderno dell’assassinio di Sharon Tate (vedi la nota 55 a p. 236), Kott compie la sua cortocircuitazione fra mito e storia e conclude, con l’inverarsi del tragema nel dionisismo deviato del presente, la struttura circolare della sua analisi del dramma antico.
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