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Kosovo, un paese alla ribalta

Kosovo, un paese alla ribalta«Andromeda Galaxy» di More Raça

Raccontare i Balcani/2 Il fermento di un Paese giovanissimo ma a riconoscimento limitato, con un'intervista al drammaturgo Jeton Neziraj

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 13 febbraio 2021

È risaputo che il Kosovo vanta la popolazione più giovane d’Europa, la generazione ’80 e ’90, per lo più nata e cresciuta prima e dopo l’ultima guerra balcanica. Non tutti sanno però che il Kosovo è uno dei quattro Paesi al mondo che ha l’inno nazionale fatto di sola musica, senza nessuna parola e che non sono stati ancora liberalizzati i visti per poter viaggiare in Europa. Il Kosovo è riconosciuto come Stato solo da 93 paesi membri dell’Onu e da 22 paesi dell’Unione Europea. Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che da qui, dalla Piana dei Merli, dove i serbi subirono l’onta della invasione degli ottomani, trovò ispirazione il mito fondatore della propaganda nazionalista di Slobodan Miloševic, forse si comprendono le ragioni per cui riconciliazione e ricostruzione sono ancora le sfide di questo Paese.

Ora a complicare i sogni di stabilità e di pace ci sono le dosi di vaccino antiCovid che il governo serbo sta consegnando alle minoranze serbe del Kosovo senza preavvisare le autorità locali ma soprattutto le decisioni del Tribunale dell’Aja che ha perseguito dapprima i responsabili dei crimini di guerra perpetrati nei confronti dell’etnia albanese e poi quelli perpetrati dai vertici di etnia albanese dell’Uck, l’Esercito di Liberazione del Kosovo (Hashim Thaçi, Agim Çeku, Ramush Haradinaj, Fatmir Limaj), che combatterono in guerra per portare il paese verso l’indipendenza nazionale.

È come dire che il futuro non avanzerà finché non si sconteranno le colpe del passato, finché la verità dei fatti non emergerà nella sua integrità. Colpe e ferite che gli artisti kosovari stanno elaborando e curando, aprendo nuovi spazi culturali, organizzando festival, scrivendo testi che rispecchiano il loro desiderio di cambiamento, qualche volta entrando in conflitto con le istituzioni e i paradigmi culturali dominanti, improntati a sentimenti nazionalistici e autoritari oppure succubi di logiche neocapitalistiche.

Cinema
C’è comunque una scena culturale e artistica molto giovane e vitale con i tre festival di cinema che si tengono a Prizren, il Dokufest curato da Veton Nurkollari e che ha accompagnato al successo due giovani registe Blerta Basholli e Blerta Zeqiri arrivate al Sundance Film Festival con i film The return e Hive; il PriFest International Film Festival a Pristina; l’Anibar International Animation Festival a Peja. A Pristina vive More Raça premiata al San Sebastian Film festival con il film del suo debutto Andromeda Galaxy, mentre vive in Germania il regista e sceneggiatore Visar Morina con partecipazioni a Locarno Iff 2013 e al Karlovy Vary Iff 2015. Al festival Oltre il Confine in Valle Camonica nel 2011 sono arrivati i film di Burim Haliti, Ferraglia (2007) e Intervista ( 2008) sui temi della famiglia, della povertà, della migrazione.

Arti visive
La Stacion-Centro per l’arte contemporanea, punto di riferimento per gli artisti visivi, architetti e designer, fondato da Albert Heta e Vala Osmani, organizza ogni anno l’«Artists of Tomorrow Award» che nel 2020 è stato assegnato a Laureta Hajrullahu, Shkamb Jaka, Brilant Milazimi. La Biennale di Venezia nel padiglione dedicato al Kosovo ha ospitato nel 2019 opere di Alban Muja, nel 2018 è arrivata la curatrice Eliza Hoxha, nel 2017 Sislej Xhafa. Viaggiano tra performance, concettuale e arte pubblica Driton Selmani, Alban Ukaj, Rron Qena e Doruntina Kastrati.

Resta tuttavia aperta la ferita procurata dal Centro Culturale di Belgrado a Petrit Halilaj che l’estate scorsa doveva esporre al 58° Salone–Biennale di Belgrado, intitolato The Dreamers, la video documentazione Shkrepëtima, uno spettacolo teatrale messo in scena tra le rovine della casa della cultura di Runik, simbolo dell’identità multietnica . Halilaj si è visto affiancare al suo nome un * asterisco prima del nome del suo Paese, il Kosovo, a sottolineare il fatto che quel Paese non è riconosciuto come Stato dalla Serbia.
«Volevo superare – aveva dichiarato Halilaj – la dicotomia tra noi e loro, tra bene e male, per aprire finalmente uno spazio di discussione condiviso invece di allargare una divisione che ha già forgiato così tanto odio».

Letteratura
Sul rifiuto della censura e della identità basata sul ‘noi contro loro’, sui temi della convivenza e del dialogo interculturale, del rapporto fra politica e cultura lavora tanto teatro e tanta letteratura. Basta seguire Polip, il festival internazionale di letteratura organizzato da Qendra Multimedia di Pristina curato da Saša Ilic (Serbia) e dal drammaturgo e regista teatrale Jeton Neziraj (Kosovo).

Ritirando il Premio dell’Unione europea per la letteratura per L’opuscolo dell’amore, lo scrittore Shpëtim Selmani ebbe a dichiarare: «Sono un albanese del Kosovo. Quando vado in Serbia sono un šiptar, il termine offensivo con cui alcuni serbi chiamano gli albanesi. Quando vado in Europa vengo dai sanguinosi Balcani. Quando vado in America sono europeo. Quando vado su Marte vengo dalla Terra. In questi giorni sento di essere George Floyd. Allen Ginsberg ha detto che l’uomo ha molte identità: io contengo molte identità».

Teatro
Ma è soprattutto Jeton Neziraj, già direttore scomodo del Teatro Nazionale di Pristina allontanato dal Ministro della Cultura e spesso preso di mira con minacce paramafiose, ad animare la scena teatrale con una forte impronta politica e sociale, denunciando la crisi dei valori occidentali, la corruzione e i costi pesanti che il Kosovo sta pagando ai nuovi colonizzatori.
Al netto di censure e minacce agli artisti senza protezioni politiche e fuori dalla retorica della jugonostalgia, Pristina diventa sempre più spazio aperto di cooperazione culturale dove il sogno dell’Europa convive e si scontra con gli incubi del passato balcanico.

Jeton Neziraj, un drammaturgo in prima linea
Jeton Neziraj (1977) durante le guerre di Jugoslavia per sfuggire al servizio militare e per evitare violenze e massacri del governo serbo di Slobodan Miloševic fu costretto all’emigrazione. Rientrato in Kosovo diventa direttore artistico del Teatro nazionale e poi di Qendra Multimedia, centro di produzione attivo nella diffusione del teatro e della letteratura contemporanea. Ha scritto più di 20 opere che sono state messe in scena in tutta Europa e anche negli Stati Uniti. I suoi lavori e i suoi scritti sono stati pubblicati e tradotti in più di 15 lingue. Non ancora messi in scena da compagnie italiane, i suoi testi più importanti sono Peer Gynt dal Kosovo (2014), Bordello Balcani (2014, ) Guerra ai tempi dell’amore (2007-2008), Il volo sopra il teatro del Kosovo. Spettacolo con quattro attori…(2017) pubblicati nel 2019 da Editoria&spettacolo. Bordello Balcani sarà prodotto da La MaMa Theater di New York e Handke project dal Gorki Theater di Berlino e dal ZKM di Zagabria. L’ultima sua opera è Il ritorno di Karl May, una coproduzione fra Qendra Multimedia, Volksbühne di Berlino e Teatro Nazionale del Kosovo.

Il regista Milo Rau ha raccolto nel volume «Why theatre?» cento testimonianze di artisti da tutto il mondo chiamati ad esprimersi sul senso del fare teatro al tempo della pandemia. Tu sei stato l’unico artista dei Balcani a intervenire sul tema del rapporto fra teatro e libertà. Perché questo tema?
Un teatro libero è la testimonianza di una società libera. Una lotta per un teatro libero, in particolare la libertà sul palcoscenico, è una lotta per la libertà di una società. In Kosovo le libertà sono più ampie rispetto al passato ma dobbiamo ancora raggiungere libertà più piene, specie in tema di libertà artistica. In Kosovo ma anche in Croazia o Polonia, Romania o Ungheria, Serbia o Turchia e nella UE. A causa dei suoi spettacoli, Il regista Oliver Frljic viene frequentemente contestato, subisce violenza e minacce in Croazia, ma anche in Polonia, dove ha in corso una lunga battaglia legale con la Chiesa. La drammaturga e regista Gianina Carbunariu, a causa di uno spettacolo che dirige a Piatra Neamt ha subito forti attacchi dai politici locali. In Serbia, a Sabac, il partito di governo per ragioni politiche ha licenziato la manager teatrale Minja Bogavac. In Albania, l’autocratico Primo Ministro Edi Rama ha demolito l’edificio storico del Teatro Nazionale. Fatti simili avvengono in Ungheria e Turchia. Negli ultimi anni il politicamente corretto ha soffocato la libertà artistica in teatro. Le restrizioni alle libertà artistica vengono non solo dagli stati autoritari ma sono anche il prodotto della democrazia.

Sei uno dei critici più radicali del nazionalismo…
Il nazionalismo è lo sport nazionale preferito dei Balcani.

Cosa pensi delle dimissioni e degli arresti del Primo Ministro Thaçi?
Ha fatto bene a dimettersi. Penso che nessuno dovrebbe temere la giustizia. Dobbiamo affrontare il passato, anche quando è buio e imbarazzante. Gli albanesi in Kosovo sono stati messi al muro dal regime di Miloševic negli anni Novanta e la guerra è stata il prodotto dell’oppressione, della violenza e del tentativo di pulizia etnica di quel regime. I kosovari hanno condotto una guerra di liberazione e non possiamo dimenticare. La macchina della propaganda di Belgrado, con l’attuale governo, guidato dagli ex servitori di Miloševic, vuole interpretare la storia a suo piacimento. E la prospettiva che «tutti laggiù nell’ex Jugoslavia hanno commesso crimini» è ingiusta, falsa e non aiuta le società dell’ex Jugoslavia ad andare avanti.

Quale ruolo avrà il teatro nel nostro futuro?
Il teatro che mira solo a farci divertire, è inutile, mi fa schifo. In molte parti del mondo, il teatro è stato commercializzato e trasformato in uno strumento di intrattenimento, un parco divertimento Disney. Il teatro sembra imitare il calcio, che scatena l’adrenalina tra gli spettatori per pochi minuti finché dura lo spettacolo, e basta, niente di più. Questo mondo illusorio, artificiale e falso che questo tipo di teatro proietta, non mi fa impressione… Non voglio andare dalla realtà della vita al teatro per vedere uno spettacolo che, invece di rendermi più consapevole del mondo in cui vivo, del nostro destino come individui e delle nostre società, ci sposta in un mondo di fiabe e cerca di addormentarmi. Mi dice «va tutto bene con il mondo», «non preoccuparti per la guerra in Siria, dimentica cosa sta succedendo, guarda che abbiamo qualcosa di più importante da dirti, c’è una commedia su una principessa il cui cuore è spezzato perché il suo ragazzo l’ha lasciata…».

Quali gli effetti della pandemia sul teatro in Kosovo?
I teatri sono stati chiusi fino alla fine di settembre. Sono stati riaperti a seguito di una maggiore pressione e di una campagna ben organizzata dalla comunità teatrale. Hanno aperto con misure restrittive, ovviamente. Era inaccettabile consentire le aperture ai centri commerciali, ristoranti, palestre ed eventi politici, ma non per gli spettacoli teatrali. I teatri sono ancora aperti, anche se ogni evento deve terminare prima delle 19:00, quando inizia il lockdown. L’entusiasmo per gli spettacoli online è svanito. Credo che ogni cambiamento su teatro e tecnologie debba essere ricercato all’interno della natura stessa del teatro, cioè di un’arte che ha bisogno di attori e di pubblico vivo. Le conversioni, anche digitali, del teatro non possono sostituire l’essenza del teatro. Mi rifiuto di diventare «innovativo» e di trovare le «alternative» per il teatro nella tecnologia.

Cosa pensi dell’Europa e dell’idea dell’Europa allargata ai Balcani?
L’Unione europea non può essere completa senza i Balcani occidentali. Tranne il caso della Serbia, che oscilla tra Unione europea e Russia, gli altri paesi dei Balcani occidentali hanno chiare aspirazioni e obiettivi, vogliono diventare parte dell’UE. Tuttavia, l’Occidente è stato e continua a essere ingiusto nei confronti del Kosovo. I kosovari continuano ad essere gli unici europei che non possono viaggiare in Europa senza visto. E l’isolamento ha creato un trauma tra le persone, il cui prezzo, alla fine, sarà comunque pagato dagli stessi kosovari. Naturalmente, le persone qui non sono ingenue e sanno che l’eventuale ingresso del Kosovo nell’UE non significa risolvere tutti i problemi, agitando una bacchetta magica. Tuttavia, far parte di una grande famiglia europea, per il popolo del Kosovo, è soprattutto una questione di sicurezza. Puntando all’Europa, mirano effettivamente alla sicurezza del loro futuro.

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