Una scena da “Mont Ventoux”

La montagna e la sua scalata costituiscono un vero e proprio topos letterario, caratterizzato da un grande portato simbolico. Ascendere significa sempre mettere l’essere umano di fronte a sé, alle sue sfide e ai suoi limiti; una ricerca iniziata molti secoli fa con Petrarca e la sua Ascesa al Monte Ventoso (1336). La lettera, indirizzata dal grande poeta all’amico Dionigi da Borgo San Sepolcro, racconta la scalata dell’omonima montagna nel Sud della Francia, impresa che si fa domanda spirituale e riflessione tanto sull’individuo quanto sull’umanità nel suo complesso. La compagnia di danza contemporanea Kor’sia, fondata dai coreografi campani Mattia Russo e Antonio de Rosa ma di base a Madrid, è partita da qui per costruire lo spettacolo Mont Ventoux, in scena sabato e domenica all’Auditorium Parco della Musica nell’ambito di Romaeuropa festival. Un cast internazionale con 9 danzatori, una poetica in cui l’impatto visivo è fondamentale – «La pittura rinascimentale è stata una grande ispirazione», affermano – per uno spettacolo che si è aggiudicato il prestigioso Premio Fedora. Per l’occasione abbiamo intervistato Russo e De Rosa.

Perché avete scelto questo testo di Petrarca?

Ci è sembrato che, nonostante la lettera sia stata scritta molti secoli fa, trasmetta dei valori che potevano parlare alla nostra epoca. Quando l’abbiamo letta la prima volta eravamo in una residenza creativa in Svizzera e della nostra finestra vedevamo tutti i giorni una montagna enorme, da lì è germinata l’idea.

Alla ricerca spirituale dell’epoca intrecciate temi contemporanei come la questione ecologica.

Più che narrare ci interessa evocare sensazioni legate a concetti che ci stanno a cuore. Di Petrarca ci ha colpito il ritorno alla natura, centrale nei suoi scritti, che segna l’inizio del Rinascimento. Scalare, arrampicarsi diventa una ricerca di connessione tra l’individuo e il mondo circostante, da cui la sfida della sostenibilità che si fa concreta nei gesti di tutti i giorni.

Come avete strutturato lo spettacolo?

C’è una prima parte urbana che è più statica, quasi un dipinto animato; poi c’è l’ascesa, una fase che abbiamo collegato alla nostra società odierna caratterizzata dalla velocità e dall’aggressività, e infine l’arrivo in vetta, la fase più calma e spirituale di cui pensiamo ci sarebbe bisogno in questa epoca.

Entrambi vi siete formati nella danza classica, sentite di averla «tradita» nel percorso che avete intrapreso poi?

No, siamo molto grati alla nostra formazione e la danza classica è sempre presente nei lavori che facciamo anche se poi la «decomponiamo» in quello che è il nostro linguaggio, che si abbevera anche delle numerose esperienze che abbiamo fatto come danzatori con grandi coreografi contemporanei. La danza classica è una tecnica molto ben costruita per il corpo ma poi i nostri valori sono completamente diversi.

Avete fondato la compagnia a Madrid. Cosa vi ha portato lì?

Entrambi eravamo danzatori della Compagnia nazionale spagnola e dopo molti anni conoscevamo bene quell’ambiente. Inoltre in questo momento in Spagna c’è grande fermento nella danza contemporanea, con tanti nuovi coreografi che si affacciano sulla scena, e questo ci ha permesso di crescere ulteriormente, nonostante sia un Paese difficile all’incirca come l’Italia, non c’è il sostegno che c’è in Francia o in Germania.

State ricevendo riconoscimenti importanti come il Premio Fedora. Ve lo aspettavate?

Di solito se lo aggiudicano grandi nomi, è la prima volta che viene dato a una compagnia piccola e giovane come la nostra e questo ci rende felici, insieme alle possibilità che il premio ci si sta aprendo.