Cultura

Klimt, questioni di famiglia

Klimt, questioni di famigliaGustav Klimt, «La famiglia»

Mostre A Palazzo Reale di Milano, va in scena la decadente Vienna e la storia di fratelli e sorelle con uno straordinario talento artistico

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 11 giugno 2014

A chi lo interrogava sui significati reconditi della sua arte, Klimt rispondeva: «Chi vuole sapere di più su di me, cioè sull’artista, l’unico che valga la pena conoscere, osservi attentamente i miei dipinti per rintracciarvi chi sono e cosa voglio». La mostra Klimt. Alle origini di un mito, fino al 13 luglio a Palazzo Reale a Milano, porta tuttavia all’attenzione anche un altro Klimt oltre all’artista stesso: l’uomo, la cui indole è frutto dell’ambiente familiare e dei suoi legami affettivi.
Siamo abituati a pensare il pittore nell’accezione romantica della «dannazione», un artista la cui creatività nasce dal puro pensiero e dalla filosofia. Le opere di Klimt sembrerebbero, a un primo sguardo, confermare tutto questo. Emanano la sacralità di icone e impongono una silenziosa venerazione. Sono figure simboliche, cariche di tensioni sotterranee, che descrivono il sentimento ambiguo di un’epoca e di una città in pieno fermento, la Vienna di Francesco Giuseppe sul finire del diciannovesimo secolo.
Tuttavia preziosa e fondamentale è per Klimt una formazione che oggi definiremmo artigianale. Figlio di un orafo, il giovane Gustav non studiò all’Accademia delle belle arti, ma frequentò la Scuola di arti e mestieri annessa al museo austriaco di arti applicate. È qui che egli riceve quella formazione eclettica che gli permetterà di unire nei suoi lavori le tecniche artistiche più disparate, dal mosaico all’incisione sui metalli.
La famiglia Klimt ha un regime di vita modesto, eppure dei sette figli che la compongono sono ben tre i fratelli che ereditano il talento paterno: oltre a Gustav, sono dediti all’arte anche Ernst, che muore prematuramente, e Georg. Quest’ultimo è medaglista e autore di rilievi scultorei in metallo: sarà lui a realizzare le cornici per la maggior parte delle opere di Klimt. La prima sala della mostra milanese ci introduce fra le pieghe di questo sodalizio familiare, in cui i fratelli Klimt condividono la passione per l’arte e le sorelle posano come modelle per i primi ritratti giovanili del pittore. Tuttavia è con il fratello minore Ernst che Gustav condividerà maggiormente l’attività artistica. Frequentavano entrambi la Scuola di arti e mestieri, e più tardi fonderanno, con il compagno di studi Franz Matsch, un atelier comune, «la Compagnia degli artisti» che riceve, grazie alle raccomandazioni dei professori, numerose commesse per la decorazione di edifici pubblici e privati.
Gli incarichi sono importanti e il successo e il pubblico riconoscimento arridono al trio. Tuttavia la morte di Ernst, avvenuta nel 1892, e contestualmente del padre di Klimt, sembrano spezzare questa sintonia con il mondo ufficiale e portare l’artista in una nuova e più matura fase, in cui l’accademismo dell’epoca e l’aristocrazia dell’Ancient Regime non si riconosceranno più.
È in questo periodo, inaugurato dai dipinti realizzati per l’aula magna dell’università di Vienna, che lo stile peculiare del pittore si precisa e prende il sopravvento sullo storicismo accademico che aveva segnato i primi dipinti. Sono in apparenza novità formali, che concernono le scelte pittoriche, i formati e le tecniche utilizzate, ma che in realtà celano più profondi significati. L’ambiente familiare di Gustav non è infatti centrale solo per la comunione artistica che lo caratterizza. Klimt vivrà tutta la vita con la madre e le due sorelle nubili, una delle quali tormentata da costanti crisi maniaco depressive. Una famiglia che protegge e avvolge, ma che soffoca e limita al contempo. Il dipinto La famiglia, esposto anch’esso a Palazzo Reale, sembra riflettere questa ambiguità: sono tre figure, una madre e due fanciulli, avvolte in una coltre indistinta da cui emergono solo i volti. La domanda sorge spontanea: è qui ritratto il sonno o la morte? Klimt non si sposerà mai e, a parte le relazioni occasionali intrattenute con modelle e amanti, avrà come unica costante affettiva il rapporto «aperto» con Emilie Flöge, che, ancora diciottenne, gli viene presentata dal fratello Ernst.
Emilie, che sarà più tardi a capo di una celebre casa di moda, incarna un nuovo tipo femminile che viene emergendo a fine ’800: una donna indipendente che vive il proprio ruolo sociale al di fuori del contesto tradizionale del matrimonio. Questa femminilità affascina e spaventa al tempo stesso: è un sentimento ambiguo che spiega l’attrazione dell’immaginario dell’epoca e dell’inconscio del pittore per il tema della femme fatale. La Salomè ne è l’esempio per eccellenza: l’immagine oscilla tra un ideale di bellezza armonico che si esprime nei motivi decorativi di contorno e nelle linee sinuose e l’inquietante realismo della figura centrale, che nella sua resa nervosa e carica di tensione espressiva vuole essere la personificazione dell’ansia erotica.
Anche quando il soggetto della tela si allontana in apparenza dai luoghi comuni della cultura misogina di fine ’800, come in Adamo ed Eva, emerge comunque un nuovo concetto del femminile. Prima d’ora il taglio verticale era riservato nella pittura al nudo virile: qui è Eva ad essere esposta in piedi nella sua nudità e la sua figura copre quella di Adamo che viene quasi relegato sullo sfondo. Quello che disturba il pubblico dell’epoca non sono i nudi in sé, ma come questi vengano affrontati: le figure emanano un fascino inquietante, sono scomposte e contorte e la seduzione è esibita. Non è più la sensualità pudica della Maia desnuda di Goya che con la mano si copriva il sesso in segno di decenza. Qui la figura seduce e invita apertamente all’erotismo. Nel Fregio di Beethoven, che occupa un’intera sala della mostra milanese nella riproduzione esatta che lo stesso Klimt ne fece per la Biennale di Venezia, le tre donne, personificazioni di lussuria, accidia e gola, sono sfrontate e ammiccanti senza precedenti. Klimt morirà di ictus a 56 anni, ritratto sul letto di morte da un giovane Schiele che ne sarà l’erede spirituale, accentuandone tuttavia ambiguità e contraddizioni.
Lascia un corpus ridotto di circa duecento opere, molte delle quali distrutte nell’incendio del Castello di Immendorf del 1945. Nonostante questo, l’intera sua produzione ha plasmato l’immaginario di un epoca e ha, ancora per noi oggi, un valore iconico fondamentale: la mostra milanese rappresenta un’occasione imperdibile per vederne radunati degli esempi fondamentali.

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