Arriva in sala subito dopo il festival di Cannes, sull’onda del premio come migliore attore a uno dei protagonisti, Jesse Plemons, o forse del successo del precedente Povere creature, Kinds of Kindness di Yorgos Lanthimos, in cui il regista greco, ormai hollywoodiano, ritrova parte del cast del suo film pluri-Oscar, la star assoluta Emma Stone, e colui che lì era stato il suo «creatore» – Willem Dafoe. Rispetto a Poor Things! in questo sua raccolta di «tipi di gentilezza» ritrova un dispositivo simile ai film greci del passato – o forse è sempre lo stesso ma più sottolineato e meccanico nello stile glaciale che sceglie dopo lo scoppiettìo delle povere creature – per una nuova variazione sul tema (a lui carissimo essendo regista autoritario) del controllo nelle relazioni umane fra libero arbitrio, desiderio di appartenenza, dipendenza affettiva. Che esplora anche qui attraversando l’immaginario, non più quello del cinema novecentesco che accompagnava le piroette di Bella/Emma Stone, ma una sorta di flusso seriale da streaming, e forse pure una primitiva Intelligenza artificiale. Composto come un trittico, con la narrazione scandita da una musica martellante e ripetitiva, ci presenta dunque tre diverse storie in cui gli attori tornano ogni volta interpretando ruoli diversi – nel cast ci sono anche Margaret Qualley, Hunter Schafer, Hong Chau.

IL PRIMO narra di una coppia ricca e dall’apparenza felice, l’uomo (Plemons) ha una bella casa, la moglie è amorevole e premurosa, l’ufficio lascia intuire una professione di alto livello. Scopriamo quasi subito però che ha posto la sua esistenza sotto il controllo di colui che è anche il suo capo (Dafoe) che da dieci anni decide ogni dettaglio della sua esistenza: cosa deve mangiare, che aperitivo bere, in quale bar, i vestiti che indossa, l’arredamento della casa, se è troppo grasso o troppo magro, persino la donna che ha sposato, quando devono fare sesso, la scelta di non avere figli e quando deve andare a letto con lui e la sua giovane compagna (Qualley). L’uomo- che si chiama Robert, con la stessa iniziale del suo «Master» – il lato oscuro del God di Povere creature – ha però deciso di ribellarsi e la sua vita a quel punto è finita, perché al potere del suo «benefattore»e padrone multimiliardario non c’è scampo. Nel secondo un poliziotto (Plemons) si convince che sua moglie (Stone) dispersa in un naufragio e poi ritrovata non sia lei, al punto di essere messo sotto cura per sintomi paranoici. L’uomo però continua in questo su delirio psicotico che lascia presagire un femminicidio imminente, chiedendo alla donna «prove d’amore» quali tagliarsi un dito e cucinarlo perché finalmente lui possa ritrovare l’appetito. Nel terzo la situazione è ancora più intricata: siamo in una setta, il dio è sempre Dafoe insieme alla moglie (Chau). Stone neo adepta vuole essere la migliore, i due fanno sesso con tutte e tutti ma solo loro possono mentre gli altri devono essere casti e intanto cercano la divinità perfetta per quella loro sacralità acquatica.

ANCHE lontani dalla stanchezza della Croisette, la vacuità di Lanthimos – in gara probabilmente per il cast di star – rimane ben ferma, e questo nonostante i barocchismi – fra lenti anamorfiche e grandangoli (la fotografia è di Robbie Ryan come in Poor Things!) di cui avvolge le sue provocazioni sempre più gratuite, affidate a figure il cui destino ci lascia indifferenti. La sua regia schiaccia personaggi e attori nel suo universo di superfici lisce, scandito dalla musica martellante e privo di intensità profonda, oltre cioè la galleria gore splatter di sangue, cinismo, ammiccamenti gore, virtuosismi vari senza sostanza. Se il gioco era quello del grande tema in chiave di paradosso – in «tipi di gentilezza» suggerito dal titolo – non è decisamente riuscito. Viene da interrogarsi e parecchio sull’aura celebrativa che lo circonda.