Kimono: storia e leggende di un rotolo di stoffa
A Londra, Victoria & Albert, "Kimono: Kyoto to Catwalk", a cura di Anna Jackson Specchio dei costumi sociali come un dipinto: 250 esemplari dell’abito tradizionale giapponese, dai samurai del Seicento alla «haute couture»
A Londra, Victoria & Albert, "Kimono: Kyoto to Catwalk", a cura di Anna Jackson Specchio dei costumi sociali come un dipinto: 250 esemplari dell’abito tradizionale giapponese, dai samurai del Seicento alla «haute couture»
Il Victoria & Albert Museum ospita nuovamente un’incredibile mostra sul costume: questa volta è il Giappone a esserne il protagonista. Kimono: Kyoto to Catwalk (fino al 25 ottobre) ci proietta direttamente nel ventre del Sol Levante, accogliendoci sin dall’entrata al ritmo del taiko (tamburo giapponese) come in un film di Kurosawa.
Il termine «Kimono» o «Kosode» appare per la prima volta in documenti risalenti al tredicesimo secolo, e definisce in maniera generale gli abiti giapponesi. Fu solo durante il periodo Azuchi-Momoyama (1573- 1603) che i commercianti portoghesi, olandesi e inglesi cominciarono ad associare la parola «Kimono» a uno specifico abito nipponico. Ciò che caratterizza questa veste è la sua incredibile semplicità; difatti nasce da un solo rotolo di stoffa che viene diviso in quattro larghe strisce di tessuto, in seguito cucite a mano e completate generalmente da un obi, cintura ricamata e stretta in vita. Esistono svariati tipi di kimono e tutti hanno una funzione ben precisa: definiscono lo status, il genere e il ceto di chi li indossa. Ad esempio, i furisode erano i kimono per le giovani donne che venivano portati fino al matrimonio; gli uchikake i loro soprabiti; i katabira i kimono estivi; gli himongi appartenevano alle mogli, mentre gli yogi erano dei kimono oversize che servivano da coperta per la notte.
Purtroppo, però, di tutti questi kimono solo pochi esemplari sono giunti fino ai giorni nostri, e tra questi, come documenta la mostra, i più appartengono a donne del clan dei samurai. Infatti, le donne più abbienti cambiavano spessissimo i loro abiti, cedendoli di anno in anno alla loro servitù; leggenda vuole che non indossassero mai lo stesso kimono per più di dieci volte. Gli uomini invece, essendo socialmente più attivi, seguivano un codice di abbigliamento molto più severo, secondo il quale non era permesso esprimere il proprio gusto personale; per questo i loro abiti erano molto meno preziosi. Infatti in mostra troviamo soltanto una decina di esemplari di kimono maschili, ma fanno parte di grandissime collezioni museali e private tutti gli accessori utilizzati da questi ultimi, come l’inro, l’ojime e il celeberrimo netsuke su cui si sofferma Edmund de Waal nel suo memoir Un’eredità di avorio e ambra (Bollati Boringhieri, 2010).
In questa esposizione viene tracciata la storia del kimono dalle sue origini ai giorni nostri attraverso l’esibizione di più di 250 esemplari, appartenenti al V&A e alle più grandi collezioni mondiali. La sua ambizione è scardinare i luoghi comuni di «immutabilità» e «tradizione» associati al kimono, presentandolo come un indumento estremamente dinamico e alla moda. Infatti, il viaggio all’interno di Kimono: Kyoto to Catwalk comincia con gli abiti del diciassettesimo secolo appartenenti a membri dell’antico clan dei samurai e si conclude con la haute couture, analizzando le innovative espressioni di stile, frutto del dialogo tra Occidente e Oriente.
La mostra esordisce con una serie di splendidi kimono in seta del periodo Edo (1603-1868). Ricamati con fili d’oro e tinti con la tecnica dello yuzen, raffigurano elementi bucolici come alberi in fiore, aceri dalle foglie cangianti che spesso si arrampicano facendosi strada su tutta la superficie dell’indumento fino alle spalle. Brillante l’idea della curatrice Anna Jackson di esporre accanto a questi le stampe ukiyo-e. Queste stampe a buon mercato spesso raffiguravano prostitute o eccentrici attori del teatro kabuki (vere star di quel periodo) vestiti con splendidi kimono in seta e incredibili ricami dai sapori autunnali. È proprio grazie a questi famosi attori del sovversivo Kabuki (uomini vestiti da donne) che si sono diffuse le varie tendenze del momento e che sappiamo come i kimono venivano indossati, quali accessori e quali acconciature gli si dovevano associare. Ne è un esempio il kimono a scacchi di Sanogawa Ichimatsu (1722-’62), che porta ancora oggi il suo nome ed è stato scelto come motivo per il logo delle Olimpiadi giapponesi del 2020-’21.
Una seconda sezione è dedicata agli Indian gown o, come venivano chiamati dagli olandesi, Japonse Rock. Molto alla moda nell’Europa del diciassettesimo secolo, essi venivano creati in Giappone esclusivamente per i clienti stranieri. Semplificati per poter essere prodotti in massa, presentavano chiare similitudini con il kimono ma erano molto più pesanti per proteggere dai rigidi inverni nordici. Chiaro esempio di sincretismo culturale del periodo, questa sorta di vestaglia era spesso composta da stoffe provenienti dall’India o dalla Cina, e veniva indossata principalmente dentro le mura domestiche o in contesti informali.
Proseguendo ci si imbatte in un’ampia stanza interamente coperta da specchi riservata ai kimono meisen, ossia i primi kimono prodotti in massa e venduti a buon mercato. Bisogna pensare che negli anni venti e trenta del Novecento la metà delle donne che passeggiava per le strade di Ginza indossava un meisen. Malgrado siano i kimono meno preziosi e lussuosi, sono forse i più interessanti. Il design moderno e grafico rivela chiaramente quanto siano stati influenzati dall’Art Nouveau ma soprattutto dall’Art Déco. Sfoggiando vibranti colori e geometrie ripetute, rispecchiano il desiderio femminile contemporaneo di libertà ed emancipazione. Un prezioso esempio è il kimono della Khalili Collection (1915-’30), che presenta un motivo di rose stilizzate racchiuse in un reticolo, chiaro clin d’oeil a Mackintosh e agli artisti della Scuola di Glasgow.
La mostra continua esplorando l’influenza che ha avuto il kimono sui costumi cinematografici e musicali del Novecento. Quest’abito, infatti, sembra essere stato adottato da molte star e utilizzato come simbolo di emancipazione sessuale: da Ziggy Stardust, l’alter ego di David Bowie, a Freddie Mercury, Boy George, Bjork, Madonna, Katy Perry, Kiryu etc. Di grande valore è anche la piccola collezione di kimono reinventati nella seconda metà del secolo da importanti designers giapponesi, capaci di trasformarli in vere e proprie opere d’arte da indossare. Spicca Moriguchi Kunihiko con i suoi abiti dalle linee geometriche ripetute che manifestano un grande interesse per l’optical art.
Infine, la notevole influenza che il kimono ha avuto sulla haute couture. Vi sono esposti abiti di: Balenciaga, Yves Saint Laurent, John Galliano e stilisti giapponesi come Yamawaki Toshiko, Rei Kawakubo, Hanae Mori e Issey Miyake.
Il kimono è senza dubbio un indumento versatile, la cui forma essenziale concentra l’attenzione del creatore sulla sua superficie, che come la tela di un dipinto ritrae i cambiamenti e i gusti di una società in movimento. Si può certamente affermare che quest’abito sia il simbolo e l’anima del Sol Levante, ma è anche, in un certo senso, l’emblema dell’ingrata posizione della donna nella cultura giapponese. Già a partire dalla prima metà del Novecento essa era l’unica a dover indossare il kimono durante le cerimonie ufficiali, mentre gli uomini potevano vestirsi all’occidentale. Sottomessa alle regole ferree del quotidiano, incarnava attraverso il kimono i valori nipponici di ospitalità, stabilità e continuità.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento