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Kimono, compostezza e dignità, sincretismo

Kimono, compostezza e dignità, sincretismoSovrakimono informale da donna (haori), Giappone, secolo XX, terzo decennio, coll. Lydia Manavello, foto Luigi Vitale

A Prato, Museo del tessuto L’abito del Sol Levante in 50 pezzi della collezione di Lydia Manavello, prima metà del ’900: colpisce l’innesto di motivi occidentali (avanguardie storiche) nel linguaggio di tradizione

Pubblicato più di un anno faEdizione del 2 luglio 2023

Cinque crisantemi rosa e tre foglie di aspidistra, oppure i rametti secchi di Poncirus Trifoliata, disposti ai lati di due rose e di ciuffi di pino; una foglia di Caladium Candidum (rappresentazione simbolica della Terra) insieme a una di Anthurium Bianco (l’Uomo) e a un’altra di Anthurium Rosso (il Cielo): come nell’Ikebana, l’arte giapponese del «fiore vivente» (gli esempi citati da Lezioni di Ikebana di Evi Zamperini Pucci, 1966), anche l’abito tradizionale del Sol Levante, il kimono (letteralmente «cosa da indossare»), è fortemente connesso a una ritualità antica scandita dalle regole.
La vestizione stessa (kitsuke o «arte dell’indossare il kimono»), sia per gli indumenti maschili che femminili, è complessa e richiede una specifica preparazione. Nel caso del pregiatissimo furisode indossato dalle ragazze e dalle donne nubili (è caratterizzato dalle maniche lunge e svolazzanti) occorrono, infatti, fino a due ore di lavoro perché il look sia conforme al dress code. «Il kimono, la lunga sottoveste e l’obi erano stati confezionati da Ericho di Kyoto. La lunga sottoveste era di crespo di seta color vermiglio e il kimono dalle maniche fluenti aveva un fondo giallo chiaro su cui sfumavano le tinte dell’arcobaleno, e una cascata di crisantemi di sette colori che scendeva da una spalla fino all’orlo. L’obi nero era ravvivato da un motivo a scia di ventagli. Quell’abbigliamento era costato tre volte più di quanto si solesse spendere in tali occasioni. Impiegarono molto tempo a vestirla e a prepararla, come si trattasse di una sposa. Finalmente Tami fu pronta. La sfarzosa, incantevole immagine di una maiko, non paragonabile a quella dell’apprendista che l’aveva caratterizzata fino a poco tempo prima, parve illuminare la penombra della yakata». Così viene descritta la giovanissima maiko Crisantemo di Mille Generazioni nel romanzo La virtù femminile (2003) di Harumi (Jakucho) Setouchi.

Siamo nella prima metà del Novecento, la stessa epoca in cui sono stati realizzati parecchi dei cinquanta meravigliosi kimono maschili e femminili provenienti dalla collezione privata di Lydia Manavello, nucleo principale della mostra Kimono. Riflessi d’arte tra Giappone e Occidente, al Museo del Tessuto di Prato fino al 19 novembre. Organizzata in collaborazione con il Museo della Moda e delle Arti Applicate di Gorizia e accompagnata dal catalogo (Antiga Edizioni) e da un’app che i visitatori possono usare come «assistente digitale», l’esposizione evidenzia il rapporto di reciproca fascinazione e scambio tra il Giappone («un grazioso enigma», come lo definisce Luigi Barzini in Il Giappone in armi del 1914) e l’Occidente, soprattutto in seguito all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 (all’indomani dell’apertura forzata al mondo occidentale nel 1853), dove il padiglione nipponico riscosse un successo enorme. Una fascinazione che diventa moda con la presenza sul mercato di ventagli, kimono, tazze per il tè e tazzine da caffè, pettini. Un’influenza che ritroviamo anche nella Madama Butterfly di Giacomo Puccini, debutto alla Scala di Milano il 17 febbraio 1904. Anche in Giappone, del resto, ci furono contaminazioni: nel michiyuki (sovrakimono informale da donna), di cui in mostra vediamo un esemplare in velluto devoré, di probabile manifattura francese, con l’etichetta «Hankyu Hyakkaten» (grande magazzino fondato ad Osaka nel 1929), l’ispirazione occidentale sta nell’inserimento di bottoni automatici mascherati dal tessuto, estranei alla tradizione locale, e nel taglio della scollatura sciallata terminante in tre smerli. Accanto a questo indumento, introduce il percorso l’animazione dei paraventi nanban, realizzati da pittori della corte giapponese alla fine del XVI secolo con il racconto visivo dello sbarco accidentale di una flotta di navi mercantili giapponesi, nel 1543, nell’arcipelago nipponico, primo contatto in assoluto tra Sol Levante e Occidente, insieme a cartoline postali d’epoca, stampe di Hiroshige, Hokusai e Utamaro, il Trittico di stampe policrome con l’Imperatore Meji che visita la terza Esposizione Industriale Nazionale (1889) del pittore ukiyo-e Yoshu Chikanobu, al secolo Hashimoto Naoyoshi. Tra gli altri pezzi la rivista «Paris Illustré. Le Japon», del 4 maggio 1886, copertina illustrata da una xilografia di Keisai Eisen raffigurante una figura femminile in kimono, fonte d’ispirazione per La Courtisane (1887) di Van Gogh.

Dall’Archivio Luce provengono i filmati in b/n dagli anni trenta ai cinquanta che documentano aspetti diversi: dalla tintura dei tessuti dei kimono estivi alla toletta mattutina di una signora giapponese, dalla complessa realizzazione di un’acconciatura alle sfilate di moda. Immagini «datate» che emanano un fascino senza tempo. Quel fascino dichiarato dai pittori Impressionisti e Post Impressionisti (tra loro Monet che si definiva «fedele emulo di Hokusai», Gauguin, Matisse) influenzati dal fenomeno del «Japonisme» (definizione del critico d’arte Philippe Burty), alla cui diffusione contribuirono in larga parte i fratelli Goncourt, a cui invece spetta la paternità del termine «japonaiserie».

Anche il rinnovamento artistico promosso dalle avanguardie storiche fu di grande impatto sul linguaggio decorativo nipponico: dalla collezione Manavello provengono kimono informali femminili coloratissimi (komon), principalmente di taffetas di seta con motivi geometrici, segmenti intrecciati, bande multicolore, tatewaku (nuvole di vapore ascendente), gorghi d’acqua stilizzati che sono direttamente collegati a dipinti come Mattina nel villaggio di Malevich, Strada principale e strade secondarie di Klee, Segno con accompagnamento di Kandinsky, L’attesa di Klimt. Un viaggio nei colori vibranti degli indumenti più formali e informali dal kimono al sovrakimono (haori), con la presenza immancabile delle cinture (obi) in seta damascata o broccato che possono arrivare ad avere una lunghezza di 400 centimetri per una larghezza di circa 10-12 centimetri.

Quanto ai capi più formali vanno elencati l’iromuji in seta a tinta unita, il kurotomesode (abito da cerimonia per le grandi occasioni), quello semiformale tsukesage e il furisode, realizzati con tessuti decorati con tecniche diverse: katazome, katagami, shibori, sumi-e, surihaku, meisen e yuzen, tecnica quest’ultima inventata dal pittore Miyazaki Yuzensai alla fine del XVII secolo e in uso tuttora).

«Per l’occasione Kazu indossò un kimono a piccoli disegni color grigio-lilla e un obi rossoscuro con sopra stampato un unico tralcio di crisantemi. Una grande perla nera spiccava nella spilla di corniola dell’obi. Aveva scelto quello speciale abbigliamento con l’idea di dare al suo aspetto maggiore compostezza e dignità»: da Yukio Mishima, Dopo il banchetto (1960). Compostezza e dignità possono essere considerate anche le parole chiave di questo percorso che analizza il kimono giapponese «come manifesto dei profondi cambiamenti vissuti da questo Paese», scrive la collezionista. Ma l’estetica giapponese è basata anche sulla presenza di elementi dissonanti, come nel sottokimono da donna nagajuban datato 1926-’40, i cui motivi stampati a fondo blu e avorio mostrano pupazzetti su aeroplani, treni e mongolfiere, mentre sul retro – nella parte inferiore – fanno la loro comparsa cartoline pubblicitarie di hotel di Venezia, Firenze, Hawaii, un viaggio che continua in un immaginario esotico che non finisce mai di stupire.

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