«È come essere arrivata a sporgermi sul confine ultimo dei miei sogni». Osservare l’orizzonte sconfinato e blu da una spiaggia del nord del Québec e nel farlo abitare lo sguardo lieve e profondissimo di Joséphine Bacon, poeta, traduttrice e documentarista Innu, una delle popolazioni originarie di quelle terre.
Perdersi nei suoi occhi limpidi di donna settantenne e insieme di bambina, strappata a cinque anni alla famiglia per una ignobile prassi imposta ai tempi dal governo coloniale, e vissuta in collegio fino a diciannove. Ecco, la sua visione si libra dal suolo, vola, si dispiega, planando sull’acqua, cercando tra mare e cielo la stessa contemplazione dei suoi antenati, degli anziani che tutta la vita ha rispettato e amato, studiandone la storia, i riti, la lingua. Per custodirli e per preservarli dalla violenza e dalla cancellazione. (Quest’anno, dopo la scoperta, nel 2021, di fosse comuni risalenti alle scuole residenziali cui erano stati affidati i bambini nativi sottratti alle famiglie, bambini traumatizzati per sempre e discriminati, il Canada ha deliberato di dare alle Prime Nazioni un risarcimento).
Con J’ai m’appelle humain della documentarista e attivista Kim O’Bomsawin, Les Journées du cinéma québécois en Italie, guidate da Joe Balass e giunte alla 19ma edizione, si addentrano fino al cuore politico e insieme poetico della loro ricerca cinematografica. (La rassegna sarà in sala il 24 marzo all’Institut Français di Milano e al Circolo della Stampa di Avellino, dal 25 al 31 marzo online su MYmovies).
«Conoscevo da tempo Joséphine Bacon», ci ha raccontato Kim O’Bomsawin qui a colloquio, «anche perché il Québec è un piccolo mondo dove tutti quelli che fanno arte e cultura più o meno si frequentano. Dunque ammiravo il suo lavoro ma non avevo mai pensato di farne un documentario. D’altra parte, lei aveva rifiutato tutte le proposte ricevute da altri filmmaker. È stato un suo caro amico, Reginald Volland, che stava collaborando a un altro mio film, From Teweikan to Electro, a convincerla e a propormi di dirigere il film. Quanto alla sua struttura, poiché lei è anche una documentarista, una tra le prime appartenenti alle popolazioni native, ho voluto che fosse pienamente parte del progetto ideativo. In questo senso la sua visione è apparsa subito chiara: non voleva un film su di lei ma sulle persone che ama».
E così Je m’appelle humain è una danza di incontri intimamente affettuosi tra la neve e i grattacieli di Montreal, dove Bacon ha trascorso molti anni e dove tutt’ora vive e i paesaggi sconfinati della tundra del Nutshimit e dei caribù, dove è nata e dove si reca con la troupe e con Marie-Andrée Gill, giovane poeta Innu che l’accompagna in questo viaggio cinematografico-esistenziale. Joséphine si rivela allora nella sua atavica umanità, illuminata da un sorriso disarmante e meraviglioso, nelle sue interazioni con un’amica dai tempi del collegio (mentre sui materiali di repertorio anni ’50 la musica si fa angosciosa e insostenibile), con la sua grande famiglia, coi figli, i nipoti e la zia che parla solo Innu – pensando agli anziani la sua poesia è sempre pubblicata in doppia lingua – con la sua collaboratrice di una vita, che l’ha aiutata a essere consapevole di essere poeta e con gli studiosi che sono stati determinanti nella sua ricerca artistica.
«Il suo percorso è stato particolarissimo», continua O’Bomsawin autrice tra gli altri di Ce silence qui tue, Questo silenzio che uccide, sulla scomparsa e l’uccisione di donne indigene nel suo Paese. «L’essere stata strappata alla sua famiglia da bambina e l’aver vissuto 14 anni in collegio ha inciso su di lei in maniera indelebile. D’altro canto, le ha anche dato un’educazione e la conoscenza del francese, cosa che le ha consentito di diventare una traduttrice a fianco degli antropologi che negli anni ’70 indagavano le Prime Popolazioni. È stato così che si è ricongiunta alla cultura degli anziani e alle persone che ancora vivono una vita nomade o seminomade. Joséphine ha un legame profondissimo con il territorio, con la sua vita spirituale e con la lingua Innu originaria, che pochissimi conoscono. Ecco perché lei è davvero un tesoro nazionale».
Chiedo poi a Kim O’Bomsawin quali siano le sue origini e il suo personale rapporto col territorio: «Non sono Innu ma Abenaki, una tra le Popolazioni Originarie dell’est, che per prime sono state costrette dai colonizzatori francesi a vivere negli spazi ristretti delle riserve. Quindi abbiamo perduto più di altri abitanti originari la nostra connessione con la terra e ora stiamo lavorando per riacquisirla. Io sono nata a Montreal e ho vissuto lì ma già all’università ho iniziato a visitare queste comunità native della provincia del Québec perché ero curiosissima di conoscere le mie origini».
Ma Je m’appelle humain non è solo un’indagine storico- antropologica che risuona nella soggettività sensibilissima di Bacon, è anche ricerca tra cinema e poesia, dove quest’ultima non attiene né all’essere pubblicati né alla consapevolezza di essere poeti (in Innu non esiste la parola «poesia» perché come Joséphine dice «eravamo poeti semplicemente vivendo in armonia con l’acqua e la terra. Eravamo poeti nei silenzi»), ma è un’attitudine irriducibile dell’anima, è la sua voice over che ricama parole Innu sulle immagini, è Marie- Andrée Gill che, dopo aver raccolto il dolore della amica per essere stata priva di modelli genitoriali nel crescere i suoi figli, prima si fa sua stampella e poi la porta sulle spalle: «Sollevo mia nonna e le mie ginocchia si piegano per il peso della sua saggezza».
«Joséphine è la nonna che noi tutti vorremmo avere» – continua O’Bomsawin – «ma al tempo stesso è una giovane ragazza rimasta orfana dentro, fin da quando il legame con la sua famiglia è stato brutalmente reciso. Credo le sia mancato di essere amata da bambina e da adolescente e sento che soffre ancora molto per questo. Quindi ha in sé anche una grande tenerezza, una sua fragilità di cui bisogna prendersi cura. Tra noi c’è stata una relazione paritaria, Joséphine ha molto da insegnarmi e da trasmettermi, ma al tempo stesso io ho sentito che volevo essere lì per lei, al suo fianco».
Dice poi ancora O’Bomsawin: «Credo che il pianeta abbia bisogno di tante Joséphine Bacon e spero che le donne come lei si rivelino ancora di più. La narrazione deve cambiare. Come ha auspicato L’Onu, bisogna tornare alle popolazioni originarie di tutto il mondo che è stato colonizzato, questi popoli sono ancora lì e possiamo far riferimento alle loro conoscenze, indispensabili per rispondere alle immense domande del nostro tempo, come quelle riguardanti il cambiamento climatico e le guerre ancora ciecamente in atto. Solo il rispetto di noi stessi, degli altri degli anziani e della terra, solo la poesia che è parola di cura dell’altro e della natura possono salvare la nostra umanità e risollevare il nostro spirito così affaticato e provato. Da filmmaker indigena, cerco sempre di fare film molto intimi, rivolti all’interiorità, ma lavorare con Joséphine mi ha portato ancora oltre in questa direzione. Lei è così sensibile e attenta, incapace di mentire, totalmente onesta moralmente ma nello stesso tempo ha un cuore giovane che mi ha ricordato quanto sa importante stare su energie positive. Quando poi ha visto il film, mi ha detto che lo sentiva come un’opera civile. Io credevo fosse un documentario poetico ma lei mi ha fatto notare come mostrare la bellezza della terra sia attivismo, perché quando hai modo di contemplarla, percepisci quanto insensato sia cercare di distruggerla».