Khavn De La Cruz, «la mia dedica ai fantasmi del cinema filippino»
Cinema Intervista al regista, in questi giorni a Milano al festival Le alleanze dei corpi con un laboratorio sul cinema documentario istantaneo. Il punk, la poesia, il colonialismo, l'eredità di José Rizal
Cinema Intervista al regista, in questi giorni a Milano al festival Le alleanze dei corpi con un laboratorio sul cinema documentario istantaneo. Il punk, la poesia, il colonialismo, l'eredità di José Rizal
«Chi sono io? Chi è Khavn? Mi ridefinisco continuamente, come il cinema». Così si presenta Khavn De La Cruz, regista filippino sperimentale, impegnato in questi giorni a trasmettere la sua sapienza sul «cinema documentario istantaneo» a un gruppo di giovani nell’ambito del festival Le alleanze dei corpi, a Milano. Domani, alle 19 al Careof presso La fabbrica del vapore, sarà presentato l’esito del laboratorio, in collaborazione con Filmmaker Festival. Khavn – si firma abitualmente col solo nome – è un regista iconoclasta e giocoso, rimangono nella memoria le immagini di film come Squatterpunk (2007) in cui riprendeva i ragazzi di Manila giocare nelle baraccopoli. Lo sguardo del regista non trasmetteva alcun pietismo ma al contrario, veniva esaltata la vitalità dei giovani, amplificata poi da una colonna sonora punk rock realizzata dallo stesso Khavn, che ha sempre curato la musica dei suoi film low-budget. Procede abitualmente per associazioni, assemblaggi, remix. Ha realizzato moltissimi lavori di cinema, letteratura e arti visive tra cui Happy lamento (2018) dove ha incontrato la poetica di Alexander Kluge.
Da alcuni giorni è impegnato nel workshop Street Poetry. Come si svolge?
Gli studenti vengono incoraggiati a realizzare cortometraggi sul posto, a Milano, in maniera istantanea. In quattro giorni di workshop ognuno di loro dovrebbe riuscire a realizzare tre film, per un totale di trenta corti. Si tratta si tradurre alcune forme del linguaggio poetico tradizionale come l’haiku, il sonetto, la villanelle in immagini. Queste strutture vengono trasposte nel linguaggio cinematografico, ad esempio la metrica delle poesie può essere tradotta in frame, un verso può diventare una sequenza. Navighiamo nelle connessioni.
Ha iniziato a filmare a Manila, qual è la sua visione cinematografica della realtà urbana?
Quando ero giovane volevo andare ovunque, mio padre però mi diceva che non c’era bisogno di spostarmi, potevo rimanere lì e scoprire un mondo in quel piccolo spazio. Ho imparato allora che non serve andare lontano per fare un film: esplorare noi stessi, la nostra anima, può avvenire persino in casa. Ho fatto questo workshop anche durante la pandemia, nonostante odiassi zoom e il non poter uscire, i film realizzati nelle case dei partecipanti sono dei piccoli capolavori.
Parliamo ora del suo nuovo film «Makamisa, Phantasm of Revenge», ispirato allo scrittore filippino José Rizal.
Rizal è stato un intellettuale rivoluzionario del XIX secolo che si opponeva al tirannico colonialismo spagnolo, e ai preti in particolare. Ha lottato molto e ha scritto due romanzi, Noli me tangere e El filibusterismo in cui parlava di quella realtà, di come sopravvivere agli abusi e rivoltarsi. Ha provato a scrivere un terzo romanzo che doveva parlare della cultura filippina pre-spagnola ma venne giustiziato dal governo prima di finirlo. Tutto questo non ci è stato insegnato a scuola, l’ho scoperto autonomamente negli anni ’90 quando ero all’università, in quel momento era stato appena pubblicato il testo non finito: Makamisa. Più di trent’anni dopo ho avuto la possibilità di realizzare quest’opera di teatro totale alla di Volksbühne di Berlino, facendo incontrare Rizal con Alfred Jarry: il primo è stato giustiziato nel 1896 e nello stesso anno Jarry presentava Ubu Roi. Ho poi lavorato su quello che è un finto film filippino degli anni ’20, lo abbiamo girato nel deserto a tre ore da Manila con l’attrice tedesca Lilith Stangenberg su pellicola 35 mm scaduta. Siamo riusciti ad averla a poco dal distributore Fuji delle Filippine. Tutto ciò che si vede sullo schermo non ha post-produzione, abbiamo trasformato il bagno in una camera oscura dove abbiamo manipolato la pellicola.
Recentemente ha fatto anche un film su Lino Brocka. È attratto dalla storia degli artisti filippini…
È vero, c’è un nostro proverbio che dice: coloro che non guardano al passato non raggiungeranno mai il loro destino. Guardare alla storia del cinema e esplorare quel limbo tra passato e presente, per raggiungere quello che io chiamo «filifuturismo», è molto importante. Ho anche realizzato un altro film, Nitrate, che ho dedicato ai fantasmi del cinema filippino. Bisogna tenere presente che da noi gli archivi non esistono: i film precedenti alla Seconda guerra mondiale non sono stati considerati meritevoli di essere conservati e così sono andati perduti, spesso rimane solo il titolo. Un altro effetto del post-colonialismo. Anche la nostra musica era considerata kitsch e si è conservata solo grazie a collezionisti privati.
La musica poi è sempre stata una parte importante del suo cinema, si sente ancora un regista punk?
Ho iniziato in realtà col piano classico, ma il punk ha davvero parlato alla mia anima e ho applicato quello spirito non solo alla musica ma anche al cinema e alla letteratura. I generi sono come vestiti, me li immagino così, è giusto esplorare diverse parti della nostra psiche.
Qual è la condizione attuale del cinema filippino?
I registi vanno dove sono i soldi e il cinema commerciale filippino non è interessato all’arte. Ma anche in questo deserto c’è qualcuno che fa cinema, magari vedremo i frutti tra qualche anno, ora siamo ancora in un limbo: si prova a accontentare due divinità, quella dei soldi e quella dell’arte, ma è impossibile farlo nello stesso film. Bisogna scegliere.
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