John Maynard Keynes non fu solo il più influente economista del secolo scorso. Fu, più in generale, uno dei protagonisti della politica e della cultura europea negli anni forse più drammatici della loro storia: quelli compresi tra le due guerre mondiali e attraversati dalla grande crisi finanziaria che travolse Wall Street nel 1929.

Come rappresentante del Tesoro britannico, ebbe un ruolo decisivo nei negoziati che conclusero i due conflitti, dovendosi in entrambi i casi rassegnare al ruolo di profeta inascoltato. Nel 1919, si spinse fino a dimettersi dalla delegazione britannica a Versailles, per denunciare l’entità sproporzionata delle riparazioni imposte alla Germania, che avrebbero portato inevitabilmente a nuovi conflitti (come puntualmente accadde). E nel 1944, a Bretton Woods, propose, a nome del governo inglese, un piano di riorganizzazione del sistema monetario internazionale che avrebbe mitigato in modo risolutivo gli squilibri e le rivalità nel commercio tra i diversi paesi. Inutilmente: a conclusione della Conferenza, la forza preponderante degli Stati Uniti impose un piano di tutt’altro tenore, che riservava al dollaro il ruolo centrale di moneta internazionale e predisponeva, così, la catena di squilibri che, in meno di trent’anni, avrebbe portato all’implosione del sistema concordato. Impegni pubblici tanto intensi non impedirono comunque a Keynes di condurre una vita privata almeno altrettanto movimentata. A Cambridge, fu tra i pochi interlocutori stimati sia da Bertrand Russell che da Ludwig Wittgenstein, partecipò attivamente alle riunioni degli Apostoli, la confraternita più in vista del College, e amministrò per anni, con successo, il fondo finanziario dell’Università.

Una storica rete di amicizia
A Londra, frequentò assiduamente la piccola ed esclusiva comunità di Bloomsbury, gruppo quasi leggendario per il suo anticonformismo, di cui Keynes condivise apertamente tanto la disinvoltura in campo erotico quanto l’intensità nell’impegno etico e politico, stringendovi una rete di amicizie cui rimase profondamente legato per tutta la vita, anche dopo il suo matrimonio (imprevisto ma straordinariamente riuscito) con Lidija Lopuchova, una stella dei Ballets russes.

Un intreccio così raro e profondo tra vicende private e grandi eventi storici non poteva non attrarre l’interesse dei biografi e la curiosità del pubblico. La vita di Keynes ha infatti ispirato una quantità di opere dallo spessore decisamente eterogeneo: dalle serie televisive ai film d’autore, fino alla monumentale e pluripremiata biografia in tre volumi pubblicata da Robert Skidelsky alla fine degli anni Novanta.

La recessione insegna
Il volume di Zachary D. Carter – recentemente tradotto da Neri Pozza con il titolo Il prezzo della pace Economia, democrazia e la vita di John Maynard Keynes (traduzione di Leonardo Clausi, pp. 642, euro 28,00) ben scritto e di piacevole lettura – aveva poche possibilità di aggiungere elementi nuovi a un terreno già così ampiamente dissodato. La scelta dell’autore è stata perciò di dedicare alla vera e propria biografia di Keynes poco più della metà del libro, per concentrare invece la seconda parte sulla storia postuma del keynesismo, ricostruendone il successo nel secondo Dopoguerra, poi il relativo oblio nei decenni del neoliberalismo rampante, fino a giungere alla sua rivincita di questi ultimi anni, quando la grande recessione ha costretto anche i più recalcitranti a riconoscere l’inaggirabilità delle riflessioni critiche di Keynes sull’instabilità dei mercati finanziari.

Il merito forse maggiore di questa storia postuma è di ridisegnare dalle fondamenta il rapporto tra i due principali modelli economico-politici della modernità: liberalismo e socialismo, di solito ritratti come ideologie fieramente nemiche, impegnate in un confronto bellicoso privo di mezze misure. La verità dei fatti è invece molto più sfumata e complessa. Pur considerandosi un liberale, e non avendo mai mostrato alcuna simpatia per le teorie economiche marxiste, Keynes era fiducioso che la sua proposta macroeconomica potesse condurre, in tempi relativamente brevi e senza conflitti violenti, alla «eutanasia del rentier… l’eutanasia del potere cumulativo e oppressivo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale». Tanto bastò perché, negli anni del maccartismo, il keynesismo diventasse un bersaglio dei nuovi censori di estrema destra, certi che «keynesiano» fosse solo un’etichetta di comodo, per mascherare l’adesione al comunismo. Era, ovviamente, un’esagerazione strumentale. Carter però è abile nel mostrare come, per quanto eccessiva, l’equazione non fosse del tutto priva di fondamento. Molti allievi di Keynes condividevano la speranza del maestro, che si potessero superare i mali del capitalismo senza alcuna rivoluzione cruenta, senza compromettere le libertà civili e senza cedere affatto alla mitologia della pianificazione centralizzata. Bastava limitarsi ad applicare con rigore le ricette macroeconomiche che, già allora, assicuravano, in America e in Europa, la riduzione delle disuguaglianze, tassi di crescita costanti e piena occupazione. Da quegli anni turbolenti, la scuola keynesiana uscì letteralmente spaccata in due.

Radicali e «bastardi»
Da un lato, specie nel Regno Unito, gli allievi che erano stati più vicini a Keynes, come Joan Robinson e Piero Sraffa, sempre più inclini a posizioni radicali. Dall’altro, specie in America, gli esponenti della nuova ortodossia, i «keynesiani bastardi» come Paul Samuleson e Robert Solow, che in pochi anni avrebbero preso le redini dell’economia americana grazie a una scoperta elementare: che la ricetta keynesiana di sostegno all’occupazione e alla domanda aggregata funzionava fin troppo bene, quale che fosse il contenuto dello stimolo e delle attività produttive sostenute dal governo. Si potevano quindi ottenere alti tassi di crescita anche tagliando le tasse ai ricchi, anziché combattere la povertà, e pompando sussidi nel complesso militar-industriale, anziché finanziare lo stato sociale. Nasceva così il «keynesismo di guerra» e, come ebbe a commentare Joan Robinson nel 1972, «il sogno a occhi aperti di Keynes si è trasformato in un incubo».

Un copione non troppo diverso è andato in scena nei nostri anni, subito dopo la diffusione della pandemia di Covid-19. Anche stavolta, le maggiori potenze hanno varato un impressionante pacchetto di misure «keynesiane», che avrebbero dovuto scongiurare la recessione favorendo la transizione ecologica, rilanciando lo Stato sociale e combattendo il dilagare della disoccupazione. Dopo meno di due anni, sembra un destino ineluttabile che a beneficiare di tanta munificenza debbano essere invece soprattutto i produttori di armi e di combustibili fossili, mentre dilaga un clima recessivo che ricorda da vicino la stagflazione degli anni Settanta. In un tale sconquasso, è difficile che i keynesiani mainstream possano dare un grande aiuto, essendo tra i diretti responsabili della situazione. Una risposta alternativa potrebbe essere forse estratta dal filone eterodosso che, attraverso figure atipiche come Abba Lerner e Hyman Minsky, porta fino alla Modern Money Theory di questi anni. A un tale keynesismo eterodosso, però, Carter non dedica quasi nessuna attenzione. Sarebbe bello pensare che lo stia tenendo in serbo per un prossimo volume.