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Kerry – Netanyahu, distanti sull’Iran

Kerry – Netanyahu, distanti sull’Iran

Roma I colloqui a Roma tra il premier israeliano e il segretario di stato non hanno accorciato le differenze tra Washington e Tel Aviv sul programma nucleare di Tehran. Lasciato ai margini il negoziato israelo-palestinese

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 24 ottobre 2013

Altro che il negoziato israelo-palestinese. E’ stato l’Iran e il suo programma nucleare a dominare l’incontro, lungo sette ore, che hanno avuto ieri a Roma il premier israeliano Netanyahu e il segretario di stato americano John Kerry. Ha messo subito le cose in chiaro il primo ministro israeliano. Nel breve incontro avuto con la stampa, prima del lungo colloquio a Villa Taverna, Netanyahu ha ribadito che il programma nucleare iraniano deve essere smantellato. «L’Iran non deve avere capacità di costruire armi nucleari, che vuol dire che non dovrebbe avere centrifughe per l’arricchimento, non dovrebbe avere un impianto ad acqua pesante per il plutonio, che è usato solo per armi nucleari», ha detto Netanyahu – dovrebbero liberarsi del loro materiale fissile e non dovrebbero avere impianti nucleari sottoterra, che si trovano sottoterra per una sola ragione: scopi militari».

E’ la versione israeliana delle intenzioni iraniane e Netanyahu, peraltro, evita di parlare dell’unico arsenale atomico esistente in Medio Oriente, almeno sino ad oggi: quello israeliano. Kerry, da parte sua, ha riaffermato la disponibilità americana a tentare l’iniziativa diplomatica con Teheran, rilanciata a Ginevra grazie alle aperture fatte dal presidente iraniano Hassan Rowhani, che tanto irrita gli israeliani (e i sauditi). Ma tenendo «gli occhi ben aperti». «Avremo bisogno di sapere che verranno adottate azioni che renderanno chiaro e limpido, assolutamente certo, intrinsecamente sicuro a tutto il mondo che qualsiasi programma venga portato avanti è davvero un programma pacifico», ha aggiunto Kerry. Che poi ha rassicurato Netanyahu sul fatto che Washington non ha intenzione, almeno in questa fase, di alleggerire le sanzioni imposte all’Iran.

Subito dopo aver fornito queste rassicurazioni, riferiva ieri online il quotidiano di Tel Aviv Haaretz,  Kerry avrebbe fatto diverse domande a Netanyahu su questioni riguardanti un eventuale accordo con i palestinesi, prima fra tutte quella dei confini del futuro Stato di Palestina. Quale sia stata la risposta di Netanyahu non si sa. Ma più di tante parole parlano le azioni del premier e del suo governo. Dall’inizio dell’anno l’espansione delle colonie israeliane nei territori del futuro Stato palestinese è stata del 70%. Una commissione ministeriale inoltre ha approvato la proposta di legge del deputato Ya’akov Litzman secondo la quale il governo potrà negoziare sullo status di Gerusalemme solo se avrà il sostegno di almeno ottanta parlamentari sui 120 della Knesset. «Netanyahu ha promesso di non negoziare su Gerusalemme. Questa legge nasce per mantenere questa promessa e conservare Gerusalemme unita (sotto il controllo di Israele, ndr)», ha spiegato Litzman.

Kerry recita il suo ruolo, sostiene che il negoziato israelo-palestinese ripreso a luglio procede nella giusta direzione. Tutti hanno però capito che la trattativa è paralizzata. Lo conferma anche l’allarme lanciato da Tzipi Livni, la ministra della giustizia responsabile delle trattative con i palestinesi. «Uno stallo può portare a uno Stato palestinese che sarebbe imposto e non sarebbe il risultato di negoziati in cui sono rappresentati gli interessi di Israele – ha detto Livni al Congresso ebraico mondiale in corso a Gerusalemme – credo nel processo di pace non come a un favore all’Unione Europea o agli Stati Uniti, è nel nostro stesso interesse». Parole evidentemente indirizzate a Netanyahu. Allarme che due giorni fa ha lanciato anche il presidente palestinese Abu Mazen secondo il quale un fallimento dei colloqui sarebbe da imputare solo a Israele. Ieri Abu Mazen ha usato toni più morbidi, annunciando di essere pronto a incontrare in qualsiasi momento Netanyahu. «Non possiamo permetterci il lusso di fallire, perché avrebbe gravi conseguenze sull’avvenire della pace e della stabilità della regione» ha ammonito al termine dell’incontro con il presidente dell’Ue, Herman Van Rompuy.

 

 

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