Ken Scott, ovvero l’importanza di prendere decisioni strategiche
Incontri Parla il produttore e ingegnere del suono inglese «cresciuto» a Abbey Road
Incontri Parla il produttore e ingegnere del suono inglese «cresciuto» a Abbey Road
«Non dire i Beatles». Questo raccomandava la sua voce interiore mentre i due esaminatori della Emi gli chiedevano quale fosse la sua band preferita. «Feci il colloquio nel gennaio 1964, in piena Beatlemania, ma risposi: “Dave Clark Five: sax e tastiere creano un sound totalmente diverso rispetto al solito gruppo con due chitarre, basso e batteria”. Era quello che volevano: qualcuno interessato al suono, non un cacciatore di autografi».
Produttore e ingegnere del suono tra i più influenti di tutti i tempi, Ken Scott aveva solo sedici anni quando mise piede ad Abbey Road per iniziare la trafila «dalla nastroteca al ruolo di assistant engineer, passando poi al mastering — per imparare le limitazioni del vinile — e diventare infine recording engineer».
“Suggerii ai Beatles di registrare in uno sgabuzzino. Tutti stipati li dentro, ma funzionò”
«NON DIRE I BEATLES». Anch’io mi ripeto lo stesso mantra, ma è impossibile non partire dalla sua prima sessione da ingegnere principale per Your Mother Should Know (1967): «Un disastro, non avevo idea di cosa diavolo stessi facendo! Ma avevano fiducia in me e dopo tre giorni ero di nuovo al lavoro per l’orchestra e il coro di I Am The Walrus. Andò tutto alla grande». La fiducia della band fu un passepartout per il processo creativo a cui partecipava con osservazioni, consigli e finanche battute, come quando suggerì a John Lennon — alla perenne ricerca di nuove sonorità — di registrare nel ripostiglio annesso alla sala di controllo: «Mi guardò e pensai: “Ok, non è divertente”. Ma l’indomani arrivò e disse: “Abbiamo una nuova canzone, Yer Blues: la registreremo lì”. Tutti e quattro stipati in quello stanzino rischiando di decapitarsi a vicenda con i manici delle chitarre! Ma funzionò benissimo, e ne venne fuori uno dei miei suoni di batteria preferiti».
“Bowie in studio è stato il più straordinario di tutti: un solo take per la voce”
LAVORARE ad Abbey Road in quei mesi significava sedersi al mixer per gente come Jeff Beck, i Procol Harum, i primi Pink Floyd. Eppure nel 1969 Ken ebbe il coraggio di trasferirsi ai Trident Studios, dove avviò due felicissime collaborazioni. Di quella con Elton John ricorda emozionato la lavorazione di Honky Château (1972) al castello d’Herouville: «Un giorno eravamo tutti insieme a far colazione, e si mise a sfogliare i testi di Bernie Taupin: “Questo mi piace”, disse sedendosi al piano nel salone. In dieci minuti scrisse Rocket Man».
Non meno cruciale l’incontro con Bowie. «David in studio è stato il più straordinario di tutti», sentenzia: «Nei quattro album che ho coprodotto con lui abbiamo sempre utilizzato una sola take per la voce.
Non c’era autotune, né taglia e incolla: quello che ha cantato in diretta è quello che senti ancora oggi». Di Bowie, lo scorso anno, ha remixato Ziggy Stardust in Dolby Atmos, un passaggio che ci porta a discutere delle sempre più frequenti riedizioni discografiche dei classici: «Nessuno dei cambiamenti apportati in quel remix è di natura musicale, soltanto questioni di sound. A differenza di altri, io ero in studio già per la versione originale e so quello che David voleva ottenere».
Il riferimento, neanche troppo velato, è ai remix beatlesiani curati da Giles Martin: «Non ho problemi finché gli originali sono ancora disponibili. Il guaio è che con lo streaming non sai mai quale versione ascolti» sottolinea Ken, puntando il dito sui casi in cui si tradisce la volontà dell’artista: «Su Glass Onion cancellai fortuitamente alcuni rullanti raddoppiati sul finale. Pensavo che mi avrebbero licenziato. Ma Lennon chiese di riascoltare il nastro ed esclamò: “Mi piace! Nessuno si aspetterebbe la parte più leggera dopo quella più pesante”. Cos’ha fatto Giles? Ha copiato e incollato il doppio rullante al posto del singolo. Molti suoi interventi sono ottimi, ma questo va contro la volontà di John. È lì che traccio il limite».
SOSTIENE che gli «originali» siano i mix mono fatti con la band in cabina di regia; ma quando gli chiedo quale sia in generale lo spazio dell’artista nella fase di missaggio, ironizza: «A casa sua!». Poi precisa: «Credo che gli artisti debbano partecipare al mix ma non nelle fasi iniziali, dove è tutto un: “Alza questo, abbassa quello…”. Molto meglio quando i loro feedback intervengono verso la fine».
Un principio di divisione del lavoro che stride con l’approccio frammentato tipico dell’era digitale, in cui diversi produttori e ingegneri lavorano sullo stesso brano, «semplicemente perché nessuno vuol prendere decisioni». Tema assolutamente centrale nella visione di Scott, che sostiene l’importanza di fare delle scelte «già in fase di ripresa, evitando così di avere infinite variabili durante il mix» e chiude con un analogia: «Ero in un supermercato a Nashville, e c’era questo tizio davanti a uno scaffale pieno di fagioli, al telefono con sua moglie, disperato: “Quali devo prendere?”. Sono fottutissimi fagioli, pensai, prendi una decisione! Così è anche per la musica, oggi».
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