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Kelley, la tua terra sarà sterile, e io non sarò il tuo negro

Kelley, la tua terra sarà sterile, e io non sarò il tuo negroMitch Epstein «Biloxi, Mississippi, 2005» (2005)

Scrittori afroamericani Ambientato in un immaginario stato del profondo sud statunitense, sineddoche dell’intera regione, «Un altro tamburo» uscì nel 1962, durante le lotte per i diritti civili: da NNE

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 10 novembre 2019

Nel suo Note sullo stato della Virginia, Thomas Jefferson, padre fondatore degli Stati Uniti, principale estensore della Dichiarazione di indipendenza e colto gentiluomo latifondista del Sud, affrontava la questione della schiavitù con il paternalismo che connotava (e che molto spesso contraddistingue ancora) le élite bianche americane. La schiavitù è un’istituzione bestiale che, attraverso un quotidiano esercizio di tirannia, marchia i proprietari con «odiose peculiarità», scrive Jefferson; ma la liberazione degli schiavi è una faccenda complessa, che va risolta «con il consenso dei padroni» piuttosto che con l’abolizione della schiavitù.

Il terzo presidente degli Stati Uniti scriveva dal punto di vista del proprietario terriero, conscio che una posizione più radicale (come quella del collega rivoluzionario Thomas Paine, decisamente meno incline al compromesso) avrebbe evidenziato l’ipocrisia di coloro che, come lui, si professavano araldi della libertà ma sopravvivevano e si arricchivano anche grazie al non trascurabile apporto del lavoro degli schiavi.

Ucronia o forse utopia
In modo ancora più subdolo, i precetti della democrazia jeffersoniana, che vedevano nella terra una naturale fonte di umana virtù, e individuavano nei piccoli proprietari terrieri la pietra di volta del futuro sistema politico, escludevano silenziosamente ma senza possibilità d’appello la massa di schiavi afroamericani dalla possibilità di partecipare alla costruzione del tessuto sociale della nazione.
Cosa sarebbe successo se, a seguito dell’abolizione nominale della schiavitù e della sua trasformazione in una mezzadria magari non altrettanto feroce, ma ugualmente razzista, classista e umiliante, i discendenti degli schiavi avessero deciso di abbandonare i campi e il Sud segregato per sempre?

Da questa domanda muove l’ucronia (che è forse un’utopia se letta dalla parte dei neri, e una distopia se vista dal lato dei bianchi) di William Melvin Kelley, Un altro tamburo (traduzione di Martina Testa, Nne, pp. 246, € 19,00). Il romanzo è ambientato in un anonimo e immaginario stato del profondo sud statunitense, che fra aura leggendaria e parallela verosimiglianza è la sineddoche dell’intera regione, all’epoca dell’uscita del libro. Era il 1962, cuore del periodo delle lotte per i diritti civili, ancora scosse da frequenti atti di violenza a sfondo razzista: per esempio, il tristemente famoso assassinio dei tre attivisti che avrebbe ispirato il film di Alan Parker Mississippi Burning, le radici dell’odio, portando infine all’approvazione del Civil Rights Act e del Voting Rights Act, solo due anni più tardi.

Attraverso un racconto frammentato e polifonico, tenuto insieme dagli interventi di un narratore onnisciente, Kelley ci introduce alla cittadina di Sutton e ai suoi abitanti, colorito campionario dei tipici abitanti del Sud rurale, ormai cristallizzati nell’immaginario (non solo statunitense) grazie alla tradizione etnografica che la letteratura di questa regione possiede da sempre.

C’è il ricco latifondista discendente da un eroe confederato, c’è il proprietario dell’emporio attorno al quale orbita costantemente un fedele gruppo di perdigiorno e ubriaconi, e ci sono le immancabili southern belles, figure femminili a malapena a loro agio in un mondo di uomini pratici e, non di rado, violenti.

Il punto di vista assente
Totalmente assente dalla lista dei personaggi-narratori omodiegetici, il punto di vista degli afroamericani, che sopravvive però attraverso le testimonianze sconcertate dei bianchi del paese, increduli di fronte all’esodo biblico che sta avendo luogo sotto i loro occhi. Un escamotage narrativo che esplicita la scelta autoriale di presentare la condizione afroamericana attraverso il filtro (sclerotizzato e spesso incapace di cogliere la realtà nella sua dimensione più cruda e autentica) dell’etnia dominante, colpevole di guardare ai discendenti degli schiavi con lo stesso insopportabile paternalismo e la stessa ipocrisia dimostrati da Jefferson anche quando dava voce a istanze progressiste.

Artefice e ispiratore dell’esodo è Tucker Caliban, ultimo esponente di una stirpe di schiavi che, acquistata una parte della piantagione in cui hanno lavorato i suoi avi, cosparge l’appezzamento di sale, dà alle fiamme la sua casa e scompare per sempre insieme alla famiglia. Il cognome, che ha ereditato dal figlio di un africano dotato di forza sovrumana e condotto in catene al mercato degli schiavi del porto di New Marsails (chiara trasfigurazione del terribile mercato di New Orleans) infine giustiziato in quanto indisciplinabile, lo ricollega direttamente al Calibano della Tempesta.

Lo schiavo semi-selvaggio del dramma shakespeariano, ripugnante agli occhi del suo padrone (con una certa approssimazione, un punto di vista condiviso da gran parte dell’aristocrazia del Sud), diventò, negli anni, simbolo dell’oppressione coloniale, e, soprattutto attraverso la rilettura a opera del movimento della négritude, si trasformò nel campione ideale del riscatto afroamericano – riscatto che si concretizza infine nel netto e surreale atto di diserzione messo in pratica dai neri di Sutton sotto la guida di Tucker.

L’offesa alla terra, che Tucker Caliban sterilizza cospargendola di sale, è tanto un attacco all’identità bianca del Sud, che della terra ha sempre fatto un elemento fondamentale di ancoraggio identitario, quanto agli ideali della democrazia jeffersoniana; e quindi, inevitabilmente, all’intero edificio della democrazia statunitense, alla violenza e all’ipocrisia che le fanno da fondamenta, nonché ai maldestri, ripetuti tentativi di propagandare come terra della libertà una nazione costruita in massima parte sul genocidio dei Nativi e sulla schiavitù. In questo senso, il romanzo di Kelley è uno schiaffo diretto all’American Dream, che nel possesso della terra e nella supposta emancipazione dalla terra medesima, trova uno dei propri pilastri più antichi e radicati.

La violenza apre e chiude
«La storia dei neri in America è la storia dell’America. Non una bella storia», scriveva James Baldwin. Un altro tamburo, che nel titolo richiama anche il padre della disobbedienza civile statunitense, Henry David Thoreau, risponde suggerendo la più radicale delle proteste: negarsi definitivamente alla società (bianca, sudista) bruciando tutti i ponti alle spalle.

Aperto e chiuso da due atti di violenza, il romanzo, sebbene apertamente caustico nei confronti dei vecchi padroni, acquista una innegabile nota di amarezza. Le cose cambieranno mai davvero? Kelley, all’epoca attivo nel Black Arts Movement, dedito all’emancipazione artistica e intellettuale degli afroamericani, non sembra ottimista; ma la forza iconoclasta, ironica e rivoluzionaria di questo suo romanzo resta, più di cinquant’anni dopo, a testimoniare la voce di coloro che, rifiutando l’assimilazione gregaria proposta dalla stessa società che aveva praticato il linciaggio e la ghettizzazione, hanno preferito rispondere, ancora con Baldwin, «non sono il tuo negro».

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