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Kazuhiro Soda, una questione di metodo

Kazuhiro Soda, una questione di metodo

«Why I Make Documentaries», a cura di Silvio Grasselli

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 luglio 2023

Kazuhiro Soda è diventato negli ultimi anni una delle voci più distinte nel panorama documentaristico contemporaneo, giapponese o internazionale che sia. Opere quali Mental, Peace o Campaign, uscite fra il 2007 e il 2010, e soprattutto i due dittici Theatre 1 e 2 del 2012 e Oyster Factory e Inland Sea del 2015-2018, hanno confermato il rigore stilistico ed il talento con cui Soda lavora da decenni. Da molti anni a New York, città in cui si è trasferito per studiare e poi lavorare per l’emittente pubblica giapponese NHK nella seconda metà degli anni Novanta, Soda dirige, filma e cura il montaggio di tutti i suoi documentari indipendenti, con la moglie Kashiwagi Kiyoko come produttrice. Inoltre Soda scrive spesso, in giapponese, di cinema e soprattutto di questioni sociali e politiche in articoli su riviste, giornali e libri.

Naze boku wa dokyumentarii wo toru no ka è un volume pubblicato nel 2011, dove il giapponese affronta il processo di realizzazione, i problemi e la teoria legati al cinema documentario ed è stato recentemente tradotto in inglese come Soda Kazuhiro – Why I Make Documentaries (208 pagine, Viaindustriae, Milano 2023, a cura di Silvio Grasselli, traduzione di Matt Schley).Si tratta della prima versione inglese degli scritti più illuminanti di Soda, arricchita da un nuovo apparato iconografico relativo ai suoi film e da un’introduzione aggiornata dell’autore stesso.

Come scritto sopra, il volume è stato pubblicato originariamente in Giappone nel 2011, dopo il terremoto e lo tsunami che colpirono il nord del paese, una tragedia che spinse Soda quasi a cancellare il progetto, ed è strutturato intorno a Peace (2010), il terzo documentario diretto in modo indipendente dal giapponese. Soda apre il libro raccontando come nacque il film, cioè attraverso l’invito a realizzare un cortometraggio da parte del DMZ International Documentary Film Festival in Corea del Sud. Ma nel prosieguo vengono narrati anche gli incontri inaspettati che Soda ebbe durante le riprese e le difficoltà nel dare forma a un’opera incentrata su una comunità di persone e di gatti nella città di Okayama, in Giappone. Descrivere il processo di realizzazione di Peace è per Soda un’occasione per riflettere e mettere su pagina il suo metodo di lavoro, le sue convinzioni su ciò che il cinema documentario può fare, e altre importanti questioni legate all’etica e alla filosofia del cinema.

Soda descrive il suo metodo e il suo stile come «cinema d’osservazione» e quando realizza i suoi documentari cerca sempre di seguire le dieci regole che lui stesso ha stabilito: nessuna ricerca, niente sceneggiatura, nessun incontro preparatorio con i soggetti filmati, filmare da soli, riprendere il più a lungo possibile, coprire in modo approfondito piccole zone, non impostare un tema o un obiettivo prima del montaggio, niente narrazione o titoli in sovrimpressione o musica, usare inquadrature di lunga durata, autoprodurre il film.

Il volume affronta molti temi e argomenti affascinanti e significativi per chi si interessa di cinema del reale. Innanzitutto la responsabilità che comporta tenere in mano e puntare una videocamera su qualcuno. La videocamera, secondo Soda, scava senza pietà e mette a nudo il subconscio del soggetto e quelli che lui chiama i ‘punti deboli’ delle persone. Questo può lasciare un soggetto profondamente ferito e in questo senso c’è la possibilità per un documentarista di diventare un aggressore, il rischio è molto reale cioè che la videocamera diventi uno strumento di violenza.
Alcune belle pagine sono dedicate inoltre anche ai registi che Soda considera le sue principali influenze, il direct cinema americano degli anni Sessanta e specialmente Frederick Wiseman, che per l’autore giapponese rimane ancora oggi un punto fermo nel firmamento dell’universo documentaristico.

Come le innovazioni tecniche hanno contribuito a plasmare il cinema alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta, così la rivoluzione digitale avvenuta all’inizio di questo secolo ha creato un nuovo modo di fare cinema. Il più grande impatto di questa nuova tecnologia, secondo Soda, è stato quello di liberare il cinema documentario dal suo passato in pellicola ed aprire nuovi orizzonti, l’uso delle nuove videocamere ha permesso cioè di montare attraverso computer e di girare e proiettare in digitale.

Proprio grazie a queste nuove tecnologie Soda ha potuto intraprendere la carriera di regista indipendente, un percorso che ha preso il là ed è stato forgiato anche in opposizione con ciò che aveva sperimentato nel mondo del documentario televisivo durante gli anni Novanta.
In televisione, secondo Soda, tutto è spesso sceneggiato e, una volta che il regista o i produttori stabiliscono un tema o un obiettivo per il programma, la realtà catturata viene distorta, è parziale e non lascia nulla al caso; quest’ultimo è, sempre secondo il regista giapponese, uno degli elementi più forti ed importanti di un documentario. Come esempio di questo modus operandi sbagliato, Soda porta la sua esperienza personale di lavoro con la NHK dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. All’indomani della tragedia, l’emittente giapponese cercava immagini di lacrime e cooperazione da poter usare per i suoi programmi, mentre a New York Soda spesso assisteva a scene di banale vita quotidiana e litigi.

L’apertura alla casualità è, come si scriveva, un punto chiave dell’approccio di Soda al documentario ed è affascinante leggere nel volume che in questo è stato influenzato e ispirato dall’arte e dal metodo creativo di Jackson Pollock e dal modo in cui la danza è stata concettualizzata da Merce Cunningham, un artista che Soda ha potuto conoscere e incontrare grazie alla moglie.

Alcune delle pagine più affascinanti sono quelle dedicate all’arte del montaggio, in cui Soda la paragona allo scolpire il legno, trovare cioè le venature adatte che già sono presenti, e quelle di un successivo paragrafo intitolato «Cambiare se stessi attraverso l’osservazione». Qui Soda associa l’atto di osservare attraverso il documentario alla meditazione Vipassana, argomento che ha molto a cuore e su cui ha anche scritto un volume nel 2021.

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