Il 10 giugno a Astana, capitale del Kazakistan, si è aperto l’Expo sull’energia a cui partecipano anche molte aziende italiane. L’Italia, con il gruppo Eni è presente in Kazakistan dal 1992 dove partecipa allo sfruttamento di due dei più importanti campi petroliferi del paese. Il giacimento di Karachaganak e soprattutto quello di Kashagan che con i suoi 500.000 barili di produzione giornaliera, è già ora uno dei più importanti del mondo.

ALTRE AZIENDE PETROLIFERE italiane operano nel campo della raffinazione e dell’impatto ambientale. Ma dietro i futuristici padiglioni dell’Expo 2017 si nasconde una realtà assai meno attraente. Qualche giorno fa il tribunale della città di Shymkenta ha condannato Larisa Karkhova, leader della Confederazione dei sindacati indipendenti del Kazakistan, agli arresti domiciliari per 4 anni e la confisca di tutte le sue proprietà. Immediatamente a Kiev, la locale organizzazione anarcosindacalista, ha tenuto un presidio di protesta sotto l’ambasciata del Kazakistan, mentre i sindacati russi indipendenti hanno indetto iniziative analoghe.

LA CONDANNA DI LARISA segue la messa al bando lo scorso 4 gennaio della Confederazione dei sindacati indipendenti del Kazakistan su scala nazionale e il sequestro di tutti i suoi beni. A partire dal 18 gennaio oltre 700 operai dei campi petroliferi di Qalamqas e Zhetybai, hanno iniziato uno sciopero della fame a difesa del loro sindacato che è durato alcune settimane. La «Oil Construction Company» ha replicato licenziando 40 operai e chiedendo al tribunale un risarcimento per 2 milioni di dollari per le «perdite» registrate durante il periodo della protesta.

Anche la polizia non è rimasta con le mani in mano e ha fatto arrestare due militanti del sindacato accusati di aver fomentato la protesta. Nurbek Kushakbaev, vice presidente della confederazione è stato quindi condannato a due anni e mezzo di prigione, a una multa di 80 mila dollari e al sequestro dei suoi beni, mentre il leader operaio della «Oil Construction Company», Elemin Eleusinov, ha subito una condanna di 4 anni e una multa di 50 mila dollari. La Human Right Watch che ha condotto una inchiesta nel novembre 2016 sulla condizione dei lavoratori nel paese riferisce di aver registrato moltissimi casi di violazione dei diritti umani. «Licenziamenti collettivi, intimidazioni, pedinamenti, minacce sono una pratica diffusa» nei confronti dei lavoratori sindacalizzati, denuncia la Ong.

IL MOVIMENTO SINDACALE e la sinistra in Kazakistan sono le più combattive tra i paesi dell’ex-Urss. Il governo kazako in questi anni ha usato ogni mezzo per impedire l’organizzazione dei lavoratori, ma questi hanno opposto una tenace e commovente resistenza.

Nel dicembre del 2011 durante una manifestazione a Zhanaozen, nella regione occidentale del paese, la polizia ha ucciso 14 operai. Da allora la repressione non ha conosciuto soste. Decine di militanti sindacali e di sinistra sono stati costretti all’esilio. Nel 2012 un operaio di «Resistenza Socialista» è stato ucciso in casa sua, dopo aver subito per mesi minacce di morte.
Il regime instaurato da Nursultan Nazarbaev, il presidente kazako, somiglia tanto alla dittatura che vigeva in era sovietica. Al vertice del partito comunista locale già in epoca gorbaceviana, egli è stato dal 1991 sempre rieletto presidente. Il «favore» dei kazaki per la sua persona anzi è divenuto un crescendo rossiniano: nelle elezioni presidenziali del 2015 Nazarbaev ha ottenuto ben il 97,7% dei voti.

Inutile dire che l’Ocse non riconosce alcun valore al voto. In parlamento oltre al suo partito, che controlla gran parte dei seggi, siedono altri tre partiti, nessuno dei quali però (compreso il partito comunista!) è all’opposizione. Per quanto riguarda il futuro, Nazarbaev il successore lo ha già in casa. Si tratta della sua primogenita Dariga, 54 anni, business woman, vicepresidente del consiglio e presidente del parlamento.

ALLA «ECONOMIA SOCIALISTA» che professava in precedenza, Nazarbaev ha sostituito un robusto programma di privatizzazioni e dal 1993 ben 17.000 aziende sono state poste sul mercato. Gran parte di queste sono finite nelle mani di un pugno di imprenditori locali legati strettamente al presidente mentre nel settore energetico si è preferito sottoscrivere contratti di concessione a corporations americane, russe, britanniche e italiane, tutte disposte a chiudere entrambi gli occhi su democrazia e diritti umani quando si tratta di lauti affari.