Il fotografo Moriyama Daido ha provato a immaginare il giorno in cui Kawabata «scelse di morire», nell’aprile del ’72, per capire se fosse anch’egli vittima di una delle tante primavere in cui i fiori di ciliegio, schiudendosi in uno spettacolo di ineffabile bellezza, ci rammentano l’irreversibilità del tempo. Moriyama confessava il proprio disagio di fronte ai ciliegi. Il nervosismo e l’impressione di trovarsi tra le tombe di un cimitero confermavano il legame indissolubile tra bellezza e morte che l’immagine di questi fiori evoca da sempre nelle arti giapponesi.
Kajii Motojiro e Sakaguchi Ango sono gli autori moderni che hanno espresso in modo più dirompente le sensazioni di angoscia e inquietudine associate a un fiore che, da simbolo del clan Fujiwara in epoca Heian, si trasformò nel corso dei secoli in un’icona nazionale soppiantando il susino, troppo legato alla poesia cinese.

I ciliegi della ineluttabilità
Il dubbio di Moriyama è destinato a rimanere tale: non è dato sapere se nella primavera del ’72 i fiori di ciliegio abbiano acuito il male di vivere di Kawabata Yasunari, tanto più che l’autore non lasciò alcun messaggio che spiegasse la scelta di suicidarsi. Un tassello mancante, questo, nella vicenda di uno scrittore che ha sviluppato un’autentica poetica dell’assenza, una teoria della distanza, che parlava di «gioia del vuoto» in Uccelli e altri animali e del «dolce piacere di ciò che finisce e non lascia più nulla» nella Danzatrice di Izu.
Anche i ciliegi sono presenti nella sua opera, e sebbene in maniera più sottile rispetto a Kajii e Sakaguchi, completano o inquadrano momenti di notevole intensità. Succede nel Suono della montagna (traduzione di Atsuko Ricca Suga, Bompiani, pp. 305, e 16,00), scritto tra il 1949 e il 1954 e riproposto oggi in una versione sostanzialmente non dissimile da quella inclusa nel Meridiano del 2003.
Il suono della montagna non è tra le opere che valsero il Nobel a Kawabata nel 1968, ma contiene tutti gli elementi che lo motivarono, inclusa la «maestria narrativa» in grado di esprimere «con straordinaria sensibilità l’essenza del pensiero giapponese».

Letture critiche dell’assegnazione del premio a Kawabata sottolineano un presunto atteggiamento auto-orientalista in risposta alle attese a loro volta orientaliste di un palcoscenico internazionale cui il Giappone si riaffacciava dopo i disastri della Seconda guerra mondiale. L’autore si limitò ad affermare, con umiltà e ironia, che il riconoscimento era forse dovuto a semplice fortuna, alla bravura dei traduttori, persino al primato anagrafico su Mishima (ipotesi, quest’ultima, in parte accreditata da Donald Keene pochi anni fa). Ma tutte queste considerazioni appaiono fuori fuoco rispetto all’importanza di uno scrittore che pur avendo attinto a una tradizione locale, l’ha considerata nella sua complessità e restituendone i singoli elementi capovolti, decostruiti e frammentati per rappresentare istanze universali.

Poco importa che lo spazio della narrazione sia il Giappone, o che il paese sia reale o idealizzato. Se nelle opere moderniste Kawabata destruttura il quartiere di Asakusa per renderlo un mosaico di percezioni concatenate particolarmente adatte a rappresentare la realtà della metropoli in trasformazione, in un romanzo più convenzionale come Il suono della montagna la quotidianità lenta della famiglia Ogata appare come la trasfigurazione di una società che va modificandosi sempre più velocemente – e ineluttabilmente.

Il senso di inevitabilità che i ciliegi in fiore trasmettevano a Moriyama è certamente parte dell’universo narrativo di Kawabata, soprattutto in questo romanzo, dove il suono della montagna udito dal protagonista, Shingo, è un inquietante presagio di morte che alle soglie della vecchiaia giunge a turbare l’apparente normalità della sua esistenza. C’è un ciliegio nel giardino degli Ogata, e Shingo legge lo scorrere delle stagioni nei mutamenti della sua forma. Le fronde rigogliose, da cui si odono i «gridi soffocati, ma striduli e crudeli» delle cicale in estate, sono spazzate via dal tifone, a sottolinearne la debolezza di fronte alle avversità. Il ginkgo, invece, resiste e colpisce Shingo: «Quanta forza deve avere un albero così vecchio per gettare fuori le gemme in autunno!» E a bilanciare uno stupore in cui si avverte forse la timida speranza derivata da un’identificazione, interviene il commento della nuora Kikuko: «Ma le foglie hanno un’aria triste».
Il rapporto di Shingo con Kikuko è uno degli elementi di maggiore fascino nel romanzo. L’uomo tratta con grande tenerezza la nuora tradita dal figlio prediletto, Shuichi, il quale sembra precipitato in una spirale incontrollabile di insoddisfazione e amoralità. Se Kikuko non esprime mai apertamente la propria sofferenza, Shingo, che compensa una memoria sempre più labile con una rara attenzione ai dettagli (benché essi diventino solo sporadicamente raramente l’oggetto di successive elaborazioni), nota sfumature impercettibili, nei suoi movimenti e atteggiamenti, che permettono di intravederne in filigrana le emozioni.

Come spesso accade nell’opera di Kawabata, i personaggi femminili risaltano attraverso il riflesso che proietta su di loro lo sguardo dei narratori, e la distanza che intercorre tra gli uni e le altre, sintomo della negazione di un incontro diretto, diventa uno spazio poetico, dove le storie sedimentano e poi affiorano in tutta la loro complessità.

Densità di vuoti narrativi
Nel suo libro (pubblicato in giapponese) dedicato a quest’opera, Giorgio Amitrano osserva che c’è un tema mai affrontato esplicitamente ma la cui opacità ne conferma l’importanza, vale a dire la guerra. In linea con l’atteggiamento di Kawabata, che non si espresse mai in maniera netta in merito al conflitto mondiale, i personaggi del romanzo si limitano a sfiorare l’argomento nelle loro conversazioni, generalmente per collocare un evento nel tempo o in relazione a fatti banali (per esempio la canizie di Shingo, accentuatasi di colpo dopo la guerra). Eppure la guerra ha cambiato le vite di tutti, soprattutto quella di Shuichi, e anche se il lettore non capirà mai come e perché, la densità di questo vuoto narrativo contrasta con la rarefazione dei brevi cenni dei personaggi creando una tensione destinata a non dissiparsi.
Bompiani ha incluso Il suono della montagna nell’elenco dei «nove libri per nove decenni» ritenendolo, evidentemente, una pietra miliare nella propria storia editoriale e un libro rappresentativo della decade in cui fu scritto. Effettivamente, il respiro di questo romanzo, così come la resa in traduzione di Atsuko Ricca Suga, superano la prova del tempo e ne consolidano la posizione in un panorama letterario che non è né giapponese né degli anni Cinquanta, ma infinitamente più vasto.