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Kawabata, il senso dei gigli

Kawabata, il senso dei gigliDa «Il suono della montagna» di Naruse Mikio, 1954

Grandi dialoghi/1 Con «Il suono della montagna», il cui protagonista, Shingo, a sessantadue anni comincia a cogliere in sé segnali di declino che gli fanno presagire l’approssimarsi della morte, lo scrittore giapponese si confrontava con il tema della vecchiaia

Pubblicato circa un anno faEdizione del 6 agosto 2023

Goffredo Parise aveva definito Kawabata «il maggior poeta della vecchiaia e della morte che sia mai stato dato di leggere». A suggerire questa ammirata considerazione allo scrittore vicentino era stata la lettura della Casa delle belle addormentate. Ma Kawabata si era misurato con il tema della vecchiaia già ai suoi esordi, nel racconto giovanile «Diario di un sedicenne», che descriveva la convivenza del giovane narratore con l’anziano nonno, cieco e malato; era poi tornato in argomento nella maturità con Il suono della montagna, il cui protagonista, Shingo, a sessantadue anni comincia a cogliere in sé segnali di declino che gli fanno presagire l’approssimarsi della morte.

Come altri di Kawabata, questo romanzo è nato da una composizione lenta e stratificata che si concluse nel 1952, con la pubblicazione dell’edizione definitiva. Del resto, anche la struttura del romanzo è caratterizzata da una progressione discreta eppure inesorabile, come il fluire della sabbia attraverso una clessidra. Se inizialmente sembra  che nulla si muova, con lo scorrere delle pagine l’avvicendarsi degli eventi si intensifica e, verso il finale, i fili sparsi della narrazione si annodano tutti, rivelando un disegno perfettamente compiuto. Ma la fine non ha nulla di drammatico o teatrale, è piuttosto una dissolvenza in chiusura, che proietta il particolare nell’universale.  Con un passaggio quasi impercettibile, la storia di Shingo e della sua complicata famiglia sfuma nella storia di tutti.

A causa della scarsa propensione di Kawabata per i colpi di scena, e grazie alla sua cifra stilistica caratterizzata dall’implosione,  nel Suono della montagna, come in tutte le sue opere, i dialoghi non hanno lo scopo di favorire lo sviluppo della trama, e infatti non diventano mai motori  narrativi.

I personaggi, nello scambiarsi parole e frasi, anziché avvicinarsi al centro delle questioni che li coinvolgono, se ne allontanano. Piuttosto che esporsi a confronti difficili e dolorosi,  preferiscono incontrarsi in territorio neutro, dove entrano in gioco codici intimi e inconfessati, conosciuti e decodificabili solo da loro. E’ un linguaggio cifrato che esclude il mondo circostante, ma a cui è ammesso il lettore, che discretamente vi si insinua, muto testimone di un gioco segreto.

Il romanzo si apre sulla preoccupazione di Shingo per la sua memoria diventata labile e per alcuni sintomi di declino fisico. A questi segnali si aggiunge il fenomeno inspiegabile di un rumore proveniente dalla montagna, che sembra provocato dal passaggio di un demonio nelle viscere della terra. Shingo vi legge un presentimento di morte. Non riesce a confidare a nessuno dei familiari questa sua angoscia: né alla moglie Yasuko, a cui lo lega un rapporto basato sul rispetto reciproco, ma privo da sempre di ogni  sentimento amoroso, né alla figlia Fusako, profondamente infelice e carica di atavici rancori nei confronti del padre. Non ne parlerà nemmeno col figlio Shuichi, che vive con i genitori insieme alla giovane sposa Kikuko, e che, dopo il ritorno dalla guerra, si è trasformato in un uomo cinico, che tratta moglie e amante con indifferenza e crudeltà.

Figura centrale di una comunità di parenti e amici, Shingo è in realtà avvolto in un bozzolo di solitudine. L’unica persona verso la quale prova affetto e tenerezza è la nuora. La giovane donna incarna per lui ogni ideale estetico ed etico, ma il suo senso della morale e della famiglia è troppo forte per permettergli di attuare strategie di seduzione. E la stessa Kikuko non oserebbe mai superare i confini del corretto rapporto nuora-suocero. Tutti i loro sentimenti inespressi si traducono in dialoghi apparentemente convenzionali, ma attraverso i quali riescono a comunicare reciprocamente  un profondo senso di intesa spirituale. Sebbene nessuno dei due osi superare il limite  oltre il quale il loro affetto deborderebbe nell’amore carnale, ogni tanto la compostezza dei loro scambi mostra una leggera incrinatura dalla quale filtrano momenti di acuta intensità.

Il dialogo che qui presentiamo è un esempio delle conversazioni tra Shingo e Kikuko in cui suocero e nuora spostano il discorso dai problemi che li affliggono (l’invecchiamento e la crisi della famiglia per lui, il fallimento del matrimonio con Shūichi per lei) su un tema apparentemente neutrale come la contemplazione dei fiori. Ma la scena ha un significato particolare. Shingo è reduce da una passeggiata con sua figlia Fusako e la nipotina Satoko, che – invidiosa del kimono di un’altra bambina – si protende verso di lei per strapparle le maniche. La bambina, nel tentativo di sottrarsi, si lancia e finisce davanti a un’automobile che frena a stento. Il peggio è evitato, ma l’accaduto lascia tutti sconvolti. Adesso, Fusako e la nipote dormono e, senza che Kawabata sveli il sentimento di Shingo, il lettore percepisce con chiarezza il sollievo e il conforto dell’uomo nel trovarsi solo con la nuora. Tuttavia non può confidarle il proprio tumulto interno nell’assistere all’incidente, e il suo sospetto che la nipotina, così piccola, sia già preda dello stesso male di vivere di sua madre. Kikuko reca dei fiori da disporre in un vaso: sono gigli neri, un colore che contrasta marcatamente con la sua purezza, evocata anche dal suo nome che significa «crisantemo», emblema di bellezza e regalità. Questo accostamento turba in qualche modo Shingo, ma nulla traspare di questa sensazione nel loro scambio di battute. Il contrasto tra l’elegante pallore di Kikuko e i fiori neri  è amplificato dal riferimento di lei all’anniversario della morte di Sen no Rikyū, il grande maestro del tè morto suicida. In quell’occasione i gigli neri erano stati scelti come ornamento, e la loro tinta cupa aveva creato un contrasto impressionante con la neve caduta in abbondanza quel giorno. Subito dopo  Kikuko osserva come il nero dei gigli sia in realtà un viola scuro, che comprende al suo interno un rosso cupo. Proprio questo commento consente di avvertire la sensualità affiorante nel dialogo. Infatti, dopo una digressione in cui Kawabata descrive con precisione da botanico le caratteristiche del fiore, Shingo annusa i gigli e prorompe in un’affermazione di inattesa crudezza: «Sanno di vivo – esclama – è l’odore di una donna sporca». Shingo ha pensato, senza dirlo, a qualcosa di osceno. Invita Kikuko ad annusare i fiori, ma lei preferisce glissare. È uno dei pochissimi casi in cui nel romanzo il desiderio sfugge alla censura interiorizzata nei personaggi, e il dialogo registra una incrinatura da cui filtra, per un momento presto riassorbito nei riti della quotidianità, una verità indicibile. Il desiderio, che era stato già suggerito dal contrasto tra il nero dei gigli e il bianco della neve, e dalla sfumatura violacea e rossastra custodita come un segreto nella cupezza del nero, invade brevemente la scena. La tensione tra suocero e nuora cresce, ma subito torna a implodere e si riassorbe senza che alcun equilibrio sia sovvertito.  Kikuko arrossisce, china il capo, e riprende in silenzio il ruolo a lei assegnato nella sommessa cerimonia del vivere.

Il dialogo
(Da Kawabata Yasunari, Il suono della montagna, traduzione di Atsuko Ricca Suga, Milano, Bompiani, 2021, € 12,00)

Shingo andò in un’altra camera, e Kikuko arrivò con del carbone di legna acceso.

“Siediti qui” le disse Shingo.

“Un attimo” rispose Kikuko uscendo per un istante; tornò subito dopo con una brocca su un vassoio. A Shingo il vassoio sembrò superfluo per portare la brocca, ma poi vide che Kikuko vi aveva messo qualche fiore accanto.

Prendendoli in mano, Shingo domandò:

“Che fiori sono? Somigliano alle campanule.”

“Sono gigli neri.”

“Gigli neri?”

“Sì. Me li ha regalati poco fa un’amica che si occupa della cerimonia del tè.” Kikuko aprì una porta scorrevole dell’armadio a muro dietro alla schiena di Shingo, e ne tirò fuori un piccolo vaso.

“Sono questi i gigli neri?” Shingo si meravigliava ancora della scoperta.

“La mia amica mi ha raccontato che all’anniversario della morte di Rikyū, quest’anno, ha visto nella sala da tè del ramo principale della scuola Enshū, allestita in un padiglione del Museo delle scienze naturali, i gigli neri disposti insieme ai viburni bianchi. Mi ha detto che l’allestimento era meraviglioso. Il vaso era di rame antico con la bocca stretta…”

“Sì?” Shingo guardava ammirato i gigli neri. Erano due e ogni stelo aveva due fiori.

“Ti ricordi che ha nevicato undici o tredici volte quest’anno?”

“Sì. Ha nevicato molto.”

“L’amica mi ha detto che c’era la neve alta una decina di centimetri anche il giorno dell’anniversario della morte di Rikyū, che cade all’inizio di primavera. Lei era rimasta ancora più colpita dai gigli neri proprio per quel clima. Pare che siano fiori di alta montagna.”

[…]

“Questi fiori guardano leggermente in giù. Non vorrà dire che sono appassiti?”

“Non credo” rispose prontamente Kikuko, “li ho sempre tenuti nell’acqua.”

“Chissà se anche le campanule fioriscono guardando in giù?”

“Come fiori, paiono più minuti delle campanule. Non ti sembra?”

“Credo di sì.”

“All’inizio sembravano neri ma questo colore non è nero. Sembra quasi un viola scuro, ma non è neanche viola. Pare che ci sia dentro perfino un rosso cupo. Guarderò bene domani alla luce del giorno.”

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