Katia Serra, una vita in fuorigioco
Intervista Da campionessa a cronista sportiva, la calciatrice si racconta in un libro
Intervista Da campionessa a cronista sportiva, la calciatrice si racconta in un libro
Una combattente contro gli stereotipi e le discriminazioni di genere. Questa è Katia Serra. Lo è stata nella sua lunga carriera da calciatrice durata 14 anni – dal 1986 al 2010 ha vinto uno scudetto con il Modena, tre Coppe Italia, una Supercoppa italiana e una Italy Women’s Cup, vestendo anche la maglia della nazionale – poi come responsabile sindacale del settore femminile dell’Aic (Associazione italiana calciatori) fino a diventare la prima cronista donna a commentare per la Rai la finale di uno dei tornei più prestigiosi dello sport a più alta componente maschilista in assoluto: la finale degli europei di calcio dell’11 luglio 2021 a Wembley dove l’Italia si impose sull’Inghilterra. All’attività di commentatrice abbina anche quella di docente all’Università San Raffaele di Roma, facoltà Scienze motorie indirizzo calcio, dove insegna «Modelli di gestione del calcio femminile» e da poco ha dato alle stampe il libro Una vita in fuorigioco (Fabbri Editori) dove ripercorre le tappe della sua carriera e della sua vita: dalle prime partitelle con gli amici nel cortile di casa fino all’esperienza nel campionato spagnolo, dalle scelte obbligate che le hanno cambiato la vita alle lotte sindacali per i diritti delle calciatrici.
Serra, ha spesso affermato che il calcio femminile non è solo uno sport. Cosa intende?
Racchiude dentro a sé una scelta di vita basata sulla lotta per emanciparsi da un mondo che in passato ha faticato ad accettare, e ancora oggi a valorizzare, la scelta di giocare a calcio. È più di uno sport perché include dinamiche di empowerment femminile. Personalmente l’ho vissuto come una scelta totalizzante che andava al di là del semplice obiettivo calcistico.
Ci spieghi meglio…
La motivazione che ricade sullo sport che pratichi solitamente è legata al divertimento, alla condivisione con gli altri, al superamento dei propri limiti, ecc., insomma tutti aspetti che riguardano il valore sportivo della disciplina. Ho praticato sette, otto sport diversi e la mia scelta finale è ricaduta sul calcio capendo, nel tempo, che l’ho scelto perché racchiudeva in sé un percorso di liberazione da una cultura oppressiva che non mi piaceva.
Nel suo libro parla delle differenze tra calcio maschile e femminile e dei progressi compiuti negli ultimi trent’anni rispetto alle modalità di allenamento e alle strategie di gioco. Quello che ne esce è che è sbagliato raffrontarlo a quello maschile, cosa che viene automatica per chi guarda una partita…
I paragoni costruttivi si accettano per spiegare quelle differenze biologiche, anatomiche, psicologiche e atletiche esistenti. Ma quando il paragone viene usato solo per sminuirlo, per denigralo, allora diventa intollerabile. Tra l’altro in Italia è rimasto solo sul calcio, a cominciare dal fatto che ogni volta si specifica la parola «femminile». Nelle altre discipline ciò non avviene.
C’è un capitolo intitolato «Amore, carriera e omosessualità». Qui racconta della paura del giudizio quando giocava, ma possiamo dire anche oggi…
Sicuramente al riguardo la strada è ancora lunga. Sono per la libertà di scegliere chi diventare, ma il giudizio in qualsiasi ambito è così frequente e sei impopolare se non segui le tradizioni che è complicato, soprattutto in gioventù, rimanere fedeli a sé stessi senza subire condizionamenti.
Cosa l’ha ferita di più?
Quello che mi feriva di più è che bellezza e competenza non possono viaggiare assieme. L’uno esclude l’altro. Non ho mai puntato sull’estetica altrimenti avrei dovuto scegliere altri ambiti lavorativi, eppure prima da calciatrice e poi da commentatrice ci sono voluti molti anni prima che fosse preferita la mia professionalità al resto.
Quando lei giocava non c’era il professionismo, ora sì, almeno per le ragazze che giocano in Serie A. Un obiettivo raggiunto. Visto che è stata anche sindacalista, qual è il prossimo traguardo irrinunciabile?
Lo sostengo da sempre ma per aspetti culturali, numero di praticanti, indotti generati per farlo decollare sarebbe necessaria politicamente un’unica filiera centrale che lo governasse e progettasse dal vertice alla base comprendente tutte le sue componenti perché la frammentazione oggi esistente è dispersiva. E il calcio femminile italiano solo pensato a blocco può provare ad emergere definitivamente.
La cosa che le ha fatto più male sentire durante la carriera da calciatrice e che ancor oggi persiste sui campi da calcio?
Tante cose. Difficile fare una classifica. L’aspetto pesante è la reiterazione.
Lei è stata la prima voce femminile nella storia delle telecronache a commentare una finale della nazionale di calcio maschile. Un’altra battaglia vinta per la parità di genere. Contro quali pregiudizi ha dovuto combattere?
Mi scrivevano cattiverie legate ad aspetti personali tipici per una donna che cerca di affermarsi e sostenevano che qualcuno mi suggeriva nel teller (il micro-microfono che i conduttori portano nell’orecchio, così sono in contatto con la regia che ha il compito di guidarli, ndr) durante le partite. I vari patentini conseguiti a Coverciano hanno cominciato ad aprire gli occhi agli addetti ai lavori che toccavano con mano la mia esperienza di calciatrice, così alcune resistenze pian piano sono diminuite.
Dal 20 luglio al 20 agosto in Australia e in Nuova Zelanda ci svolgerà il campionato del mondo di calcio femminile. Le azzurre debutteranno nel loro girone il 24 luglio ad Auckland contro l’Argentina e poi incontreranno Svezia e Sudafrica. Abbiamo la possibilità di ripetere l’esaltante edizione del 2019 in Francia che fece gioire milioni di tifosi davanti alla televisione?
Lo spero tanto! Ma realisticamente temo che il successo mediatico di Francia 2019 non sarà ripetibile. Lì una serie di fattori favorevoli, oggi mancanti, hanno contribuito portandolo finalmente alla ribalta. L’Italia affronterà l’evento con una squadra rinnovata, sarà soprattutto un mondiale di transizione utile alla crescita sportiva.
Le Statunitensi sono le campionesse del mondo in carica. Perché negli Usa il calcio femminile ha un grande seguito di praticanti e di pubblico?
Perché la parità di genere è partita nel 1972 su volontà del Presidente Richard Nixon che firmò l’Education Amendments. Il Title IX, sanciva l’obbligo del rispetto della parità di genere nei programmi educativi finanziati con i soldi del governo federale. Così i famosi Athletics programs delle high school e dei college, fino ad allora quasi unicamente appannaggio maschile, vengono aperti anche alla partecipazione delle ragazze. Sono passati oltre 50 anni, certamente un lasso di tempo lungo per sviluppare la discipli
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