Per quanto le piante trasmettano di sé un’immagine mite, esistono casi in cui per difendersi alcune di esse ricorrono a strategie fastidiose o pericolose. Pizzicano, pungono, ustionano, puzzano, producono sostanze irritanti, molecole che danno dipendenza e alterano (anche) le nostre percezioni, perfino veleni letali. Hanno messo a punto nel corso del tempo, assieme con le strategie di diffusione dei semi, straordinarie abilità per difendersi dai predatori e adattarsi all’ambiente. Di queste Piante cattive ci racconta, ironica e documentata, la biologa e scrittrice Katia Astafieff (sottotitolo Storie velenose, urticanti e letali, add editore, pp. 187, € 18,00). Se l’ossido sprigionato dalla cipolla per proteggersi dagli insetti ci fa piangere e dell’urticante ortica comune cantata da Victor Hugo (amo il ragno e amo l’ortica, perché l’uomo li odia) ci si dice che ha una pericolosa parente neozelandese alta cinque metri e provvista di proporzionali peli urticanti, il manzaniglio, in Venezuela chiamato Árbol de la muerte, è lo stesso albero che in Madame Bovary Flaubert evoca come pericolo. Tra quelle che diventano invasive, l’incantevole, ma fotosensibilizzante, panace di Mantegazza, introdotta come ornamentale (ispirò gli artisti Art Nouveau dell’École de Nancy) e presto fuggita dai giardini botanici, come testimonia fin i Genesis in The Return of the Giant Hogweed. Alcune contengono sostanze molto tossiche, fin letali, e altre che alterano la percezione. Per evidenziare come molte di queste piante facciano una sorta di doppio gioco: pericolose, son spesso utili anche per ricavarne cibo o medicinali e, impiegate a scopo terapeutico, arrivano a fornire princìpi attivi anticancerogeni (il caso del tasso). E a ogni buon conto, con i loro poteri insetticidi contro i predatori, molte piante possono diventare un’alternativa valida alla chimica.