Visioni

Kathryn Joseph, la ragazza del pub dalla voce incantata

Kathryn Joseph, la ragazza del pub dalla voce incantataKathryn Joseph

Musica Folk e elettronica, nelle canzoni sognanti della cantautrice scozzese; «Alcune persone mi vorrebbero più triste, lo capisco perfettamente. Non c’è nessuna formula in quello che faccio, sento quello che arriva e ancora a volte non ci credo»

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 14 marzo 2020

Possiede qualcosa di magnetico, la voce di Kathryn Joseph. È assolutamente vero quello che recita la sua biografia, quando la descrive come «un talento prodigioso e criminalmente sottovalutato».

Ha esordito a quarant’anni, del tutto sconosciuta se non tra i suoi pochi amici musicisti di Glasgow. E il suo primo disco, Bones you have thrown me and blood I’ve spilled, uscito per i tipi della Hits the fan (l’etichetta dell’amico e produttore Marcus Mackay), ha vinto lo Scottish album of the year nel 2015. Una volta scoperta, è impossibile non cadere sotto l’incantesimo di Kathryn Joseph.

La cantautrice scozzese, tuttavia, non arriva dal nulla. Avrebbe potuto emergere molti anni prima, capace di colpire etichette importanti, come la Virgin, la Emi e la Sanctuary Records, la prima a offrirle un vero contratto. La storia di come queste label siano arrivate a Kathryn (Sawers, non ancora Joseph) è davvero curiosa: un caro amico, senza avvertirla, si mette a scrivere lettere alle diverse etichette, descrivendo in modo appassionato le sue qualità di songwriter. In molti la contattano, telefonandole al pub di Aberdeen dove lavora. Kathryn, a 23 anni, ancora non se la sente: declina l’offerta della Sanctuary, continua a fare la cameriera, suonando di tanto in tanto nei pub della città .

«MA CI CREDI che io non l’ho mai letta quella lettera?», scherza Kathryn. «Lui resta uno dei miei amici più cari. È un meraviglioso essere umano. Al momento vive all’estero, ma non vede l’ora di tornare in Scozia». Per Kathryn cambia tutto nel momento in cui resta incinta. Il suo bambino nasce prematuro di tre mesi e morirà a una settimana dal parto. Si chiama Joseph, e da quel momento questo sarà il nome che Kathryn adotterà per la sua carriera musicale, la via maestra che trova per reagire. «Mi ricordo chiaramente la sensazione di quel momento. Dentro di me dicevo: se il bambino non ce la farà a vivere, voglio provarci davvero con la musica», racconta Kathryn. «È così che ho trovato il coraggio per andare avanti. Per lungo tempo non ho avuto fiducia in me stessa, ho avuto a che fare con persone con cui non mi capivo. Questo fino a che non mi sono trasferita a Glasgow, dove mi sono ritrovata come vicino di casa Marcus Mackay. Da quel momento è diventato il mio mentore, e se non fosse andata così non avrei mai registrato dei dischi, non avrei mai fatto l’artista. Ho sempre scritto canzoni per stare bene. Quando mi sentivo triste ho sempre cercato di trasformare tutto ciò in qualcosa di diverso, anche per comprendere meglio quello che mi stava accadendo».

AL PRIMO DISCO, un album intensissimo, sofferto e davvero sorprendente, segue From when I wake the want is (pubblicato dalla Rock Action, label dei conterranei Mogwai), lavoro del 2018 che rispetto al precedente, basato su pianoforte e voce, si apre all’elettronica, sperimenta nuove strade, arricchendo il materiale sonoro della cantautrice. La musica di Kathryn Joseph è capace di commuovere, mescolando atmosfere sognanti e oscure, la drammaticità dei paesaggi scozzesi a picco sul mare e la sensualità tormentata di un modello come Pj Harvey, «l’artista che ho seguito di più, che ho visto di più dal vivo, che mi incanta sempre. Penso che lei sia semplicemente perfetta, non ammiro nessun’altra come lei».

PER UN NUOVO album, tuttavia, pare che ci sarà da aspettare un po’: «Sembra che molte delle mie canzoni nascano dal mio cuore spezzato. Ma probabilmente non sono mai stata così felice come ora e questo significa che non sto scrivendo, per me è davvero strano. Alcune persone mi vorrebbero più triste, lo capisco perfettamente [e qui scoppia a ridere]. Non c’è nessuna formula in quello che faccio, sento quello che arriva e ancora a volte non ci credo».

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