Alias

Kate Beaton, papere nel bitume

Kate Beaton, papere nel bitume

Intervista L'autrice racconta «Ducks», in libreria per Bao Publishing

Pubblicato circa un anno faEdizione del 23 settembre 2023

Menzionare i numerosi premi ricevuti da Ducks di Kate Beaton (in libreria per Bao Publishing) ruberebbe spazio alle riflessioni che il graphic novel solleva. Il racconto della fumettista canadese a lavoro nelle sabbie bituminose dell’Alberta, a cinquemila kilometri da casa, per ripagare il prestito studentesco non risponde direttamente al mandato della narrazione ibrida espresso da Alberto Prunetti nel suo recente saggio (Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class, minimum fax, 2022), perché è effettivamente un memoir; la storia intreccia però tematiche di disparità e violenza di classe e di genere con la rappresentazione dell’alienazione operaia contemporanea, nel contesto di una cultura del lavoro maschile e di una versione patriarcale del capitalismo industriale contemporaneo. Ne abbiamo parlato con l’autrice.

Sin dalla primissima sequenza nel tuo libro dichiari che la storia che stai per raccontare è la tua. L’autorappresentazione è la tecnica che hai scelto per trattare la disparità di genere e di classe e ovviamente l’autodeterminazione. Hai mai pensato a un’altra modalità e in caso contrario quali sono stati i vantaggi della scelta di narrare in prima persona?
No, ho sempre pensato che avrei raccontato così la storia, senza testo narrativo, solo con i dialoghi; l’intenzione era quella di far cadere il lettore dentro la storia e ai fatti e farli vivere come è successo a me. Ho pensato che in questo modo lo avrei fatto esperire le situazioni in maniera profonda perché l’unica prospettiva dalla quale potevo essere onesta, trattandosi di un memoir, era la mia.

Hai iniziato a lavorare alle raffinerie di sabbie bituminose per saldare il tuo debito studentesco: il conseguimento di questo obiettivo costituisce anche l’arco narrativo della storia. Questa scelta consente al lettore di riflettere su un sistema universitario caro e ingiusto che spesso è il preludio di un’attività lavorativa legata allo sfruttamento intensivo. Insomma, il tuo libro è una denuncia del capitalismo neoliberista su molti fronti.
L’industria del petrolio non è necessariamente legata al debito studentesco; io rappresentavo una specie di anomalia, visto che ero lì per pagare il debito contratto per terminare la facoltà di Belle Arti. Il fatto è che molte persone provenienti dalla Nuova Scozia- una zona povera de Canada- emigra per ragioni economiche. Le persone con debito studentesco provenienti da altre aree non si spostano necessariamente verso le sabbie bituminose, ma nel mio caso e nella mia cultura è così radicato il fatto di migrare per lavoro, ed è noto che le paghe sono buone per gli incarichi legati allo sfruttamento intensivo dell’industria estrattiva. Dalle mie parti tutti sanno quale sarà il trattamento economico una volta arrivati in Alberta; io sono stata parte di questo meccanismo, insieme al mio debito studentesco. Ci sono molte regioni del Canada come la mia da dove provengono per la maggior parte i lavoratori migranti impiegati negli stabilimenti delle sabbie bituminose.

Nella tua storia l’abbandono della famiglia e della terra amata, l’abuso sessuale fisico e verbale, lo svantaggio economico e di genere sono traumatici, ma non rubano mai la scena all’atmosfera generalizzata di ingiustizia sociale. Come hai gestito l’equilibrio di questi fattori all’interno della costruzione narrativa?
Credo che costruire piccole scene che andavano a sommarsi a uno schema più grande fosse la mia unica possibilità. Ci sono quindi sequenze fatte di ricordi di aneddoti, di cose che accadevano quotidianamente, da quelle più frivole a quelle più profonde e serie; sono raccontate in ordine cronologico, ovvero nello stesso ordine con cui io stessa le ho vissute e ho imparato a vedere cosa stava succedendo. Tutti gli elementi che menzioni sono presenti, ho dovuto solo capire come incastrarli nel quadro.

Il bisogno di lavorare è automaticamente interpretato come una quasi totale disponibilità e accessibilità personale: gli abusi verbali, le allusioni le chiacchiere sessualizzate sono all’ordine del giorno nello stabilimento e fuori. Sembra che questo contesto acuisca la violenza di genere a ogni livello: come nel resto del mondo, la violenza sessuale è così comune e apparentemente tollerata che le stesse donne tendono a non farne parola. Che ne pensi?
In quello specifico contesto professionale, con una estrema disparità numerica tra i sessi, una situazione di isolamento estremo, molti soldi in ballo, turni lunghissimi, il disinteresse totale della compagnia per la salute mentale dei lavoratori, una cultura del lavoro ipermaschilizzata, una cultura della droga largamente diffusa e malcelata- è praticamente un dato di fatto.

La tua storia getta luce sulla vita dei lavoratori che a livello psicologico pensano di vivere una vita distinta e separata da quella che conducono a casa; un pensiero forse consolatorio che non dovrebbe portare però a condotte abusive. Dal tuo punto di vista, considerando questa prospettiva, i personaggi e le lavoratrici donne gestiscono meglio la distanza, o la pressione psicologica?
Non so se meglio, ma sicuramente in modo diverso. Queste circostanze riguardano tutte e tutti allo stesso modo; le sostanze sono disponibili per tutti, la depressione colpisce nello stesso modo e i matrimoni finiscono. Le persone la prendono male, non importa se sono uomini o donne. Sono scene che magari non racconto nel libro, ma che ho visto di persona. Ma le donne, le persone queer o non bianche non hanno il privilegio di reagire come in queste circostanze fanno gli uomini sul posto di lavoro. Siamo tutti condizionati dalla vita che abbiamo condotto.

Entrando nel medium fumetto, la storia è organizzata secondo I tuoi spostamenti nei diversi stabilimenti; una gabbia regolare e frequenti ellissi definiscono un ritmo incalzante della giornata lavorativa. Come hai lavorato con questa scelta stilistica e quali sono le differenze tra una narrazione così estesa e il tuo precedente lavoro sui webcomics?
È stato molto diverso dai webcomics, che erano gag, ma ho mantenuto una struttura rigida rispetto all’estensione delle sequenze: mi dicevo «ok, questa occupa due pagine, questa ne può occupare tre». Avevo bisogno almeno di quella familiarità di misura, altrimenti sarebbe stato troppo diverso per me lavorare a un romanzo lungo.

«Ducks» è un esempio brillante di working class literature. Come possono contribuire i fumetti a questa produzione letteraria?
Molte persone che lavorano nel fumetto vengono dalla classe operaia. A volte mi chiedo quanti di loro considerino di scrivere o disegnare sul tema del lavoro e pensino dentro sé stessi che a nessuno interessi né leggerlo, né pubblicarlo- a causa del tema di classe. Mi chiedo quanti editori valutino alla narrativa della classe operaia e dicano «no». Non so rispondere, ma mentre facevo questo libro ho cercato spesso titoli sul lavoro e la classe operaia e sono rimasta sorpresa da quanti pochi ce ne fossero in giro.

Senza fare spoiler, visto che il tema ambientale appare solo verso la fine del libro. Come hai scelto un titolo tanto accurato per il tuo romanzo?
C’è stato un incidente mentre lavoravo, nel 2008. Non è un vero spoiler perché ne è stata data notizia nei media. Centinaia di papere migranti sono precipitate in un bacino di decantazione in uno dei grandi giacimenti e sono morte. Improvvisamente gli occhi di tutto il mondo erano puntati sulle sabbie bituminose e tutti erano dispiaciuti. Anche se nel libro non lo racconto, le compagnie petrolifere hanno dovuto esporsi in quell’occasione, scusarsi e pagare una multa. Ma è stata comunque un’ipocrisia: quanta distruzione avevano già prodotto gli stabilimenti senza che nessuno se ne fosse curato? Quante persone indigene erano morte di cancro a causa dell’inquinamento senza che nessuno ammettesse le proprie responsabilità? E invece tutti erano molto tristi per le papere che erano apparse sul New York Times. Tutti si preoccupavano per i volatili anche quando sono ripartita, era il solo fatto che tutti conoscevano quando si parlava degli stabilimenti. Questa vicenda poteva essere letta come una metafora molto forte, giusto? Animali migratori giunti in un luogo in cui pensavano di essere al sicuro, sbagliandosi. Proprio come molti lavoratori. Ecco perché come titolo ho scelto Ducks.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento