Di quella che è stata una miracolosa epoca cinematografica a livello internazionale, la nová vlna cecoslovacca, non è rimasto più nulla, scomparsi i suoi esponenti (ultimo a febbraio scorso Juraj Jakubisko), se ne trovano talvolta le tracce tardive nei film contemporanei. Invece il ricordo di Karel Vachek si afferma ora tra le nuove generazioni di cinefili e studenti della Famu, la prestigiosa scuola di cinema dove insegnava. In suo onore hanno organizzato anche una corsa poiché, scomparso in tempo di pandemia nel 2020, non fu possibile organizzare nessuna cerimonia. E, per delinearne gli sfuggenti confini, è stato organizzato da Vladimir Hendrich, dissidente, regista e importante organizzatore culturale, un convegno al Kino Ponrepo di via Bartolomejská (che i trova proprio di fronte ai palazzi della polizia dove erano chiamati o trattenuti artisti e intellettuali dissidenti, come per un tocco in più di humour in sintonia con i film del regista).

Karel Vachek, ricordato da Torino Giovani nella preziosa edizione del ’94, è stato un cineasta che pur appartenendo alla generazione della nová vlna, compagno di studi di Menzel, Chytilová, Jakubisko, ne aveva anche preso le distanze e ha avuto lo straordinario destino di essere messo subito a tacere al suo primo progetto di lungometraggio, non dopo la normalizzazione come gli altri registi, per la sua inclinazione a mostrare gli aspetti più scandalosi e pericolosi del potere in un paese dove già tutti erano strettamente sorvegliati. Il suo nome mancava dai libri di cinema degli anni sessanta, anche perché rifiutò di far parte di quel manifesto programmatico della nová vlna che fu Perlicki Na Dne (Perline sul fondo, 1965) raccolta dei corti ispirati ai racconti di Bohumil Hrabal firmati Jan Nemec, Jirí Menzel, Vera Chytilová, Jaromil Jires, Evald Schorm. Lui non riteneva fosse giusto «mettersi al servizio» del celebre scrittore (anche lui a lungo sotto censura) né voleva lavorare con attori preferendo cogliere sprazzi di verità tra la gente.

La primavera
Era l’epoca delle prime apparecchiature leggere e con quelle e con operatori sulla sua lunghezza d’onda scese in strada ed entrò nelle camere di consiglio e nei ricevimenti con Affinità elettive a riprendere nel marzo ’68 «proprio tutto» quanto riguardava la campagna elettorale in piena Primavera di Praga che portò all’elezione di Svoboda.
I microfoni direzionali gli permettevano di riprendere ogni discorso non ufficiale e l’agilità degli operatori di riprendere ogni movimento, suprema ironia in un paese dove la cattura delle voci era consuetudine poliziesca anche nel privato. Vediamo militari, politici, gli studenti che sostengono Cisar, le poche parole ma la presenza significativa, quasi resa angelica di Dubcek e i dissidenti che sarebbero stati di lì a poco ridotti al silenzio.
Una prima rivoluzione Vachek l’aveva già fatta nel 1963 con Moravian Hellas dove sovvertiva le regole del reportage facendo entrare in scena non uno ma due «reporter» due gemelli pronti a scompigliare le situazioni e intervenire sul campo. Parecchi elementi della nová vlna sono presenti, anche se lui ritiene di non farne parte: «cerco cose folli, sorprendenti e strane e poi cerco di organizzarle in alcuni pensieri. Questi pensieri sono generalmente sociali». Fu subito messo sotto censura per l’ attacco alle manifestazioni folcloristiche, spina dorsale dell’educazione socialista, una delle istituzioni più intoccabili del sistema. Fu spedito per cinque anni alla manutenzione caldaie, ma si era già fatto un’esperienza alla mola verticale quando, durante la scuola di cinema, era stato mandato in rieducazione in fabbrica per un saggio ritenuto oltraggioso (trama: un uomo ha tanta paura della polizia che chiede al suo medico di sopprimerlo). La fuga in Europa e poi negli Stati Uniti fu necessaria, ma in America si rifiutò di lavorare per la televisione e affrontò una lunga teoria di lavori, dal laboratorio di sviluppo e stampa alla vendita di libri sportivi.

Tutta l’opera di Vachek dal suo ritorno a Praga ai trenta anni successivi è stata come una summa, un macrocosmo della memoria, un restituire la parola a tutti gli intellettuali, gli artisti a cui era stata tolta, una visione filosofica condita di quella «risata interiore» come la chiamava, a commento delle assurdità degli uomini e delle vicende storiche.

Il ritorno
Solo dopo ventidue anni torna a Praga all’epoca della rivoluzione di velluto: ricomincia dove aveva interrotto, segue altre elezioni del presidente in Novy Hyperion, ovvero «la commedia elettorale del ’90». La vera rivoluzione è stato il ’68, dice quella dell’89 è stata il restauro del neoliberismo.

Nell’incipit folgorante di una ripresa degli anni ’60 il poeta Jirous (in arte Magor, leader dei Plastic People) legge brani di poesie e con questo inizia una serie di personaggi che rimarranno per sempre impressi su pellicola o video, i personaggi più illustri e scomodi di una intera generazione, poeti, scrittori, filosofi, scienziati, messi al bando, con lunghi periodi di detenzione perché dissidenti, firmatari di Charta 77. Quelli che erano stati ridotti al silenzio parlano attraverso film di complessa decodificazione.

Una parte di quella generazione è chiamata a rapporto in Co delati «gita» a Krumlov, lo storico paese sulla Moldava: salgono su un pulmino poeti, registi, filosofi, musicisti e la troupe, verso uno dei film più divertenti, che unisce la costante del piccolo paese (tante volte raccontata da Hrabal), lo humour di Hasek, gli spunti paranormali e festaioli, le allusioni ai funghi ripresi tanto in primo piano a sottolinearne l’intervento allucinogeno («i cechi sono grandi raccoglitori di funghi»)

Impossibile sintetizzare razionalmente i film di Vachek, a raccontare gli schemi di quelle opere esplosive che è inutile pensare di poter contenere si rischierebbe di prendere infinite vie di fuga. Meglio, come suggerisce lui stesso, coglierne gli aspetti emotivi in grado di catturare «una illuminazione intima», o meglio «una risata interiore» come la definisce lui stesso. Una risata che colpisce anche l’ufficialità, la pomposità dei ruoli (Havel compreso) appena si manifesta.

Scorre un unico flusso di immagini e parole, spesso con la distorsione delle immagini, perfino con il vietatissimo uso del fish eye: per lui è una necessità metafisica a evocare da una parte la concezione del mondo di Comenio e dall’altra la deformazione dello spazio-tempo. Altra immersione nella cultura ceca in Bohemia docta (2000) ritratto dello spirito ceco e riflessione della repubblica durante l’ultimo decennio. Tra i personaggi si spazia da Egon Bondy, scrittore e poeta surrealista che ipotizza l’inferno del capitalismo globale, a Karel Sabina che aderì alla rivoluzione antiasburgica del 1948, allo scrittore di fine ottocento Ladislav Klima, al regista Jiri Krejik (La divina Emma) che inventa una scenata nei confronti dello stile poco ortodosso di Vachek, Vratislav Brabenec sax dei Plastic People, membro di Charta 77, arrestato e poi emigrato in Canada, Eugen Brikcius premio Seifert 2015 imprigionato per aver cantato con Magor «manda gli assassini russi all’inferno a cui appartengono».

Il poeta Ivan Divis (tornato in patria dalla Germania ovest dopo l’89) e lo scrittore Jaroslav Foglar muoiono durante le riprese del film, ma rinascono nel montaggio delle scene successive, una resurrezione emblematica di un universo culturale fissato per sempre («faccio film sulla resurrezione dalla morte» afferma il regista). Lo stesso Vachek è protagonista dei suoi film, va avanti e indietro nelle scene, le movimenta, le provoca, le chiude con dei ciak in campo battendo le mani . Non di documentari si tratta, ma di opere «omnia»come il finale romanzo cinematografico «Il comunismo e la rete, ovvero la fine della democrazia rappresentativa» (2020) dove scomporre in quattro ore e in quattro parti la politica, la filosofia, la religione, l’arte e i suoi protagonisti a suggerire il possibile futuro.