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«Kamen Rider», i cinquant’anni dell’eroe-cavalletta

«Kamen Rider», i cinquant’anni dell’eroe-cavalletta

Maboroshi Quando il 3 aprile del 1971,andò in onda la prima puntata, nessuno si aspettava che la serie di lì a qualche anno sarebbe diventata una parte integrante dell’immaginario popolare giapponese

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 2 aprile 2021

Quando il 3 aprile del 1971, alle sette e mezzo di sera, andò in onda su TV Asahi la prima puntata di Kamen Rider, probabilmente nessuno si aspettava che la serie di lì a qualche anno sarebbe diventata una parte integrante dell’immaginario popolare giapponese e che avrebbe dato il via ad un franchise ancora attivo cinquant’anni più tardi. Creata da Shotaro Ishinomori e coprodotta dalla Toei, la serie televisiva tokusatsu, incentrata cioè su effetti speciali, rappresenta un punto di svolta cruciale per la cultura visiva del Sol Levante. Da una parte arriva in un momento in cui il cinema delle grandi case di produzione è in crisi a causa della televisione: i giochi olimpici del 1964 ed un ritrovato benessere economico infatti popolarizzarono la tv come oggetto domestico da possedere, provocando uno slittamento verso il piccolo schermo, e di conseguenza l’intrattenimento venne portato dentro le mura domestiche. Inoltre Kamen Rider ben rappresenta quel passaggio che da mostri giganti (vedi Godzilla) porta verso una fantascienza e degli effetti speciali che descrivono e prediligono un diverso tipo di narrazione e di protagonisti. Con la serie infatti si entra nell’epoca dell’henshin: la trasformazione, un secondo boom per i tokusatsu, in cui i protagonisti sono solitamente esseri umani che si trasformano in supereroi ibridi o mostri di varie fatture.

LA TRAMA E’ ABBASTANZA semplice, l’organizzazione terroristica Shocker, un gruppo che recluta i suoi membri trasformando persone comuni in cyborg dalle fattezze vegetali, si scontra in ogni episodio con Takeshi Hongo, uno studente che dal gruppo è riuscito a fuggire. Questi possiede la capacità di trasformarsi in un supereroe dall’aspetto di una cavalletta antropomorfa che in sella alla sua moto sfida i malvagi. Kamen Rider, come si diceva, debutta sulle televisioni dell’arcipelago nell’aprile del 1971 e si conclude nel febbraio del 1973, ma l’impatto sull’immaginario dei telespettatori dell’epoca è dirompente. In questi 50 anni sono state realizzate 31 serie ispirate all’eroe in motocicletta, senza contare film, videogiochi, tre versioni taiwanesi ed una, illegale, tailandese, oltre a una miriade di altri prodotti fra cui gadget e giocattoli vari, questi ultimi economicamente le vere colonne portanti del franchise.
Serie destinata principalmente ai bambini quindi, Kamen Rider possiede però delle qualità che possono toccare lo spettatore anche più adulto. Innanzitutto le scene d’azione in motocicletta sono coreografate in maniera spettacolare, quasi come quelle di arti marziali, con salti e volteggi improbabili, ed in secondo luogo la scena di trasformazione del protagonista, che si ripete in ognuno dei 98 episodi quasi in modo rituale, diventerà parte integrante e centrale di tante serie televisive e animazioni a venire.

MA L’ELEMENTO che forse resta più impresso, e che permette anche una lettura un po’ diversa del fenomeno Kamen Rider, è la fantasia e la creatività che sono state riversate nella realizzazione dei costumi e dei personaggi, buoni e cattivi, che hanno popolato il franchise in mezzo secolo. Molto spesso alle varie incarnazioni dell’eroe mascherato in motocicletta sono state infatti dedicate mostre in musei e gallerie, e ciò che colpisce ogni volta è la capacità di queste maschere e personaggi mostruosi, ispirati al mondo degli insetti oltre che a quello vegetale, di riuscire a portare in superficie un elemento onirico e quasi surreale, una mutazione e un’ibridazione fra umano e non-umano, qui naturalmente rappresentata in modo quasi giocoso, che però è perturbante e parla del nostro presente.

matteo.boscarol@gmail.com

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