Kamasi Washington, sax man incendiario del jazz
Intervista Il musicista americano in tour dopo l'uscita del triplo album «The Epic»
Intervista Il musicista americano in tour dopo l'uscita del triplo album «The Epic»
Un sassofonista jazz non potrà mai essere una star. Neanche ora che in molti del rock’n’roll ne hanno piene le tasche? Questo ragazzone neroamericano che si presenta con i capelli arruffati, abiti che un po’ ricordano il miglior Sun Ra, collane vistose, medaglioni giaganteschi che spesso scompaiono perché lui è davvero un gigante. Si chiama Kamasi Washington è tra le più recenti e splendenti proposte del jazz afroamericano. Ha tenuto nei giorni scorsi tre concerti (Bologna, Roma, Milano) e sta portando il mastodontico repertorio del suo disco pubblicato poco prima dell’estate dal titolo The Epic, un triplo album per ben tre ore di musica.
E mette d’accordo un pubblico misto: i puristi non storcono il naso quando sentono che questo ragazzone è dotato di un’ottima cultura e conoscenza che affonda le mani nella tradizione, che a soli 18 anni si è aggiudicato il John Coltrane Music Competition, ha suonato con Kenny Burrell e McCoy Tuner; i giovani impazzisco quando sanno che lui ha girato in tour con Snoop Dogg, Mos Def e Lauryn Hill. «Sono state esperienze eccitanti e incredibili dalle quali ho imparato molto», racconta. «Mi hanno aiutato a capire meglio la direzione in cui volevo andare. Lauryn era molto esigente con noi della band: ho imparato più di 200 canzoni in appena un mese; lei aveva l’abilità di fare musica in modo spontaneo, cercava infatti che ogni pezzo non fosse preparato al punto da suonare scontato». Ma soprattutto Kamasi Washington, nato a Los Angeles da una famiglia di musicisti («A tre anni ho iniziato ad esercitarmi con la batteria, poi è venuto il pianoforte, il clarinetto e il sassofono. Mio padre mi metteva alla prova sempre con musica diversa,e mi permetteva di stare fuori a suonare tutta la notte, anche quando il giorno dopo avevo scuola»), ha marchiato a fuoco con il suo sassofono due degli album che più hanno segnato la passata stagione: You’re Dead di Flyng Lotus e To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar.
Chioma folta, pellicce vistose, barba incolta, ha due cani, si chiamano Mecca e Mi’raj, la sua missione è svecchiare l’ambiente del quale prova una grande attrazione, rispolverando spesso riferimenti alla tradizione afromaericana che va dall’AACM ad Archie Shepp, da Charles Mingus ad Albert Ayler, di quest’ultimo ne è debitore anche dal punto di vista timbrico. «Stanley Clarke tempo fa mi ha detto proprio la stessa cosa mentre suonavamo insieme, lui ci conosceva già e mi disse proprio questo, che gli ricordavamo l’AACM. L’approccio in effetti è quello di fare musica per la comunità. Loro in questo senso hanno fatto davvero molto». Al suo fianco un organico allargato, con due batteristi, due bassisti, tastiere e pianoforte insieme, tre fiati, due cantanti, venti coristi e trentadue archi. A qualificare la cifra stilistica del sassofonista ci sono i temi politici tipicamente afroamericani, nei titoli e nei riferimenti culturali.
«Ho studiato varie culture straniere: africane, orientali. Sono sempre stato affascinato soprattutto dal Giappone e dalla Cina, cerco di rimanere con la mente molto aperta e di mettere da parte la saggezza di ogni cultura; ogni posto del mondo ha qualcosa da insegnare, cerco sempre di cogliere l’occasione per imparare. Ecco perché il mio album esprime idee, concetti e filosofie di posti lontani, come ti dicevo esprime ciò che sono e ciò che faccio e che ho fatto in passato. E visto che anche io ho affrontato molti problemi e periodi bui, cerco sempre di spingere chi lo ascolta a migliorarsi, a riflettere».
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