Kamal Aljafari, Palestina, una terra scomparsa
Incontro Il cineasta Kamal Aljafari interviene sulle responsabilità del colonialismo europeo e sulla necessità di fare cinema per diventare visibili
Incontro Il cineasta Kamal Aljafari interviene sulle responsabilità del colonialismo europeo e sulla necessità di fare cinema per diventare visibili
Kamal Aljafari è appena tornato dal festival di Nyon e a Palermo terrà un ciclo di conferenze nell’ambito del Sicilia Queer filmfest, mentre ad agosto sarà in giuria al festival di Locarno.
Nel frattempo sei stato a Ramle, dove appena arrivato sei stato immediatamente vaccinato. Come hai trovato la situazione?
Il governo israeliano è stato uno dei primi a ottenere i vaccini, credo abbiano fatto un patto con Pfizer per fornire i dati delle persone vaccinate, accettando – a differenza di altri paesi – questa specie di esperimento. Naturalmente i palestinesi che vivono sotto occupazione – a Gaza, in Cisgiordania o a Gerusalemme – ne sono stati esclusi. Come potere occupante avrebbero dovuto includerli: non puoi vaccinare solo i tuoi cittadini, ci sono milioni di persone sotto tuo controllo che non hanno accesso a cure mediche equivalenti. E nello stesso tempo, per creare ulteriori discriminazioni e divisioni, i lavoratori palestinesi che provengono dalla Cisgiordania sono stati vaccinati perché sono in contatto con gli israeliani. Il governo ha la terra e tutte le risorse ma non vuole prendersi la responsabilità delle persone: è il regime dell’apartheid, ormai lo riconoscono anche le organizzazioni umanitarie israeliane, le persone sono discriminate in base alla razza e alla nazionalità. I palestinesi che non hanno la cittadinanza e vivono sotto occupazione non hanno diritto ad essere vaccinati, non hanno il diritto di votare, di viaggiare, di lavorare, di creare aziende o industrie senza il permesso del governo, di invitare all’Università un professore che venga dell’estero: tutto dev’essere approvato dal governo israeliano. Quella dei vaccini è solo una parte delle discriminazioni che riguardano tutti gli aspetti della vita. Non c’è un aeroporto, non c’è accesso al confine, tutto è controllato da Israele: se sei un palestinese della striscia di Gaza non puoi viaggiare senza dover oltrepassare la frontiera con l’Egitto, e anche quella è controllata da Israele; e se sei della Cisgiordania non puoi andare all’aeroporto di Tel Aviv e prendere un volo per l’Europa, devi oltrepassare la frontiera tra Israele e Giordania per prendere un volo dall’Armenia. Le persone non sono padrone del proprio destino. Questa vita quotidiana di sofferenza, che naturalmente non fa notizia in alcun giornale, è perenne, giorno per giorno, dura da decenni e va sempre peggio.
«La Palestina non è solo un popolo ma anche una terra» dicevano in un vecchio dialogo Gilles Deleuze ed Elias Sanbar: un popolo, una terra e anzi proprio il legame tra queste due cose. La storia degli ultimi settant’anni ha provato a spezzare questo legame e a cancellarlo.
Come tutti gli occupanti, tramite quello che è l’ultimo esempio al mondo di colonialismo di insediamento, gli israeliani hanno voluto modificare il paesaggio. Innanzitutto con l’occupazione della Palestina e con l’espulsione dei palestinesi – circa 450 villaggi sono stati completamente distrutti, provocando lo spostamento di circa 800.000 persone. In molti posti ci sono stati dei massacri e le persone sono scappate in preda alla paura, per le stesse ragioni che vediamo oggi: perché vogliono questa terra soltanto come uno stato ebraico. Distruggere i villaggi, le città, modificare il paesaggio hanno fatto parte integrante di questo progetto che ha provato a reclamare tutto per sé il paese con le più antiche città del mondo – Gerico, Jaffa, Betlemme, Gerusalemme. Ogni occasione è buona per creare una narrazione secondo la quale questo paese è solo loro, e non dei palestinesi.
I palestinesi non hanno mai detto che gli ebrei non hanno una storia qui. Molte persone sono venute in Palestina e hanno vissuto qui, non è questa la questione: penso ad esempio all’esodo di massa degli Armeni in seguito ai massacri turchi, con la differenza che gli Armeni non hanno mai pensato di togliere la terra a nessuno. Il problema del progetto coloniale è che esclude tutti: la Palestina ad esempio ha una storia romana che è più ampia di quella ebraica; immagina se qualcuno venisse dall’Europa per dire «questo paese è nostro», come è successo ai tempi delle crociate! Questa esclusione che cancella gli altri è il fulcro del progetto coloniale. Moltissimi siti archeologici sono lasciati crollare e scomparire perché arabi o romani: bisogna eliminare tutto ciò che mostra diversità nella cultura, mentre non sono riusciti a trovare tracce sufficienti per dimostrare, come vorrebbero, che questo paese è sempre stato soltanto ebraico.
Tutto questo non è cominciato nel 1967, con l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania, ma molto prima, con il Mandato britannico della Palestina e con la Dichiarazione Balfour del 1917: finché non lo si riconoscerà non si arriverà mai a una soluzione. Gli inglesi sono responsabili di questa tragedia sin dagli anni Venti, quando aiutarono i coloni a venire qui, promettendo loro la terra e armando i diversi gruppi che volevano creare una patria ebraica in Palestina – in un momento in cui forse l’1% della popolazione palestinese era di origine ebraica. Ma l’ulteriore tragedia è che questo progetto coloniale è stato portato avanti in nome della sofferenza del popolo ebraico e della Shoah: non c’è giustificazione possibile, non puoi commettere un crimine in nome di un altro, è un cerchio orribile e significa che la Seconda Guerra mondiale non è mai finita ma è stata semplicemente spinta lontano, fino a qui. Quelle che stiamo sperimentando oggi in Palestina sono le responsabilità del colonialismo europeo.
Queste responsabilità chiamano in ballo direttamente questioni che hanno a che fare con la visibilità: ancora Sanbar e Deleuze scrivevano che per i coloni israeliani i Palestinesi dovevano semplicemente scomparire (a partire dalla cancellazione del loro nome: arabi d’Israele invece che Palestinesi), se non addirittura non essere mai stati sulla terra. In tutti i tuoi film tu lavori precisamente sullo spazio e sulla visibilità.
Quel che è davvero affascinante del progetto coloniale è questa menzogna di convincere la gente di Israele che prima qui non c’era niente: che non ci fosse cultura, che non ci fosse nessuno, e che persino le rovine siano sempre state tali: una casa palestinese distrutta non è mai stata una casa, è sempre stata così. Per me questo è affascinante: il vivere in una costante negazione, negare i fatti anche di fronte all’evidenza, anche se vivi in case palestinesi. Tutta Gerusalemme ovest fino al 1948 era anche palestinese: la famiglia di Edward Said veniva da lì, la casa della sua famiglia è ancora lì e oggi ci vive una famiglia israeliana ebrea. Essendo nato in questa situazione, l’idea di fare arte e di girare film è sempre stata legata alla necessità di sopravvivere, di essere visibili e ridefinire in qualche modo la propria identità, perché qui è stata negata l’identità delle persone. Se sei un palestinese all’interno di Israele non sei mai chiamato così: ti chiameranno arabo, musulmano, cristiano, beduino… ma la tua identità nazionale ti è negata. Come si crea arte a partire da questo? Camminando per la mia città veda costantemente ingiustizie, ma vedo anche le tracce di una cultura che è ben più antica dello stato d’Israele stesso. Come si usa tutto questo per creare poesia? Questa è la grande sfida, perché ci si aspetta che uno faccia il documentarista, secondo la famosa definizione di Godard, ma nello stesso tempo è necessario cercare un linguaggio e trasformare questa condizione in qualcosa di artistico e di poetico.
Si sente spesso paragonare i palestinesi agli indiani d’America: una suggestione interessante per un regista, anche se il tuo lavoro si misura direttamente con altre figure iconiche del cinema, come ad esempio quella di Chuck Norris.
Chuck Norris è stato il protagonista di alcuni film di guerra girati qui, a Jaffa, e dunque ha preso parte attivamente all’occupazione cinematografica della Palestina. Lo ha fatto come attore, utilizzando mitragliatrici israeliane UZI, e dunque contemporaneamente facendo pubblicità all’industria bellica israeliana. Naturalmente ci sono parallelismi tra qualsiasi nazione colonizzata e quel che è accaduto ai nativi americani – Mahmoud Darwish nelle sue poesie usa spesso questa immagine come simbolo. Ma i palestinesi non sono i nativi americani: quella cultura è stata tristemente e tragicamente distrutta, il paese è stato tolto loro e i nativi americani non esistono più. Per fortuna non è questo il caso dei palestinesi. Nei giorni scorsi si è sviluppata una grande solidarietà internazionale che vede come nostri alleati naturali i movimenti dei migranti, i movimenti queer, e cioè tutti coloro che si trovano ai margini della società, gli oppressi e i discriminati. Penso sia molto importante mettere in relazione le questioni che riguardano la Palestina con quelle delle persone che soffrono per discriminazione e disuguaglianza, perché qui la lotta riguarda l’uguaglianza e la libertà, l’avversione nei confronti del suprematismo razzista e del colonialismo, la voglia di vivere una vita caratterizzata dalla stessa uguaglianza del resto del mondo.
Quali, tra i tanti registi interessanti che provengono dalla Palestina, senti particolarmente vicino al tuo modo di vedere?
Il primo film di Elia Suleiman, Cronaca di una scomparsa, provava a dare espressione all’esperienza palestinese con tutte le sue contraddizioni e complessità, realizzando del grande cinema. Prima di questo film del 1996, davvero molto importante, c’erano stati dei documentari realizzati dalle diverse organizzazioni (molte delle quali avevano équipe cinematografiche) ai tempi della rivoluzione palestinese degli anni Sessanta e Settanta. Tutti quei film avevano a che fare con la visibilità, come è evidente sin dai titoli. Fare film in queste condizioni è davvero una sfida, e nello stesso tempo molti cadono nella trappola di fare semplicemente da reporter: io non penso che sia questo il ruolo dei registi, che devono mostrare il fondo dell’oceano ed essere capaci di esprimere poesia e bellezza.
Su cosa stai lavorando in questo momento?
Sto lavorando a un film sugli archivi palestinesi e a un altro che voglio girare a Jaffa: due progetti che proseguono nel solco di quel che ho fatto finora ma che provano a battere nuove strade, nuove forme, e vogliono provare a esprimere una condizione che ha diversi strati, si tratti di archivi o della vita vissuta oggi. Ma in una situazione come quella in cui siamo oggi, che tipo di cinema si può fare? E qual è il ruolo del cinema? So che in questi giorni alcuni dei miei lavori sono diffusi on line alla luce di quel che sta accadendo e credo che il cinema possa avere un ruolo importante nell’esplorare cose che non puoi raccontare attraverso i telegiornali, dando uno spazio maggiore alle persone e provando in qualche modo a ricreare questo paese, che è occupato, e a renderlo libero attraverso il cinema. Il progetto nel quale sono impegnato è quello di creare un paese, un paese che è stato occupato e che ancora non esiste. Quella del progetto coloniale d’altra parte non mi sembra una storia di successo: è una storia di guerra e di sangue, e finché questa storia non sarà finita ci sarà sempre speranza. Le nuove generazioni mi sembrano molto motivate a non accettare questa condizione come se fosse un destino: è possibile cambiarla, anche con l’aiuto di tutti quelli che nel mondo credono nell’uguaglianza e nei diritti umani. Sono loro i nostri alleati naturali.
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