Kakutani, la regina delle stroncature finisce stroncata
Sic transit gloria mundi! Quanto poco dura la fama umana! No, non parliamo di pandori e di influencer, ma della parabola toccata in sorte a quella che, tra gli anni Novanta e il primo scorcio del nuovo millennio, è stata la più temuta critica letteraria degli Stati Uniti. Parliamo di Michiko Kakutani, dal 1983 al 2017 notissima autrice di recensioni di volta in volta benevole e (più spesso) sferzanti sul New York Times: centinaia di articoli che, oltre alla celebrità, le hanno valso nel 1998 un Pulitzer nella categoria della critica giornalistica.
Molto semplice la motivazione del premio – «Per i suoi scritti appassionati e intelligenti sui libri e sulla letteratura contemporanea» – accompagnata da un elenco di pezzi usciti l’anno precedente, e che avevano avuto come oggetto, tra le altre, le ultime novità di Philip Roth (Pastorale americana, «un’opera d’arte di forte impatto»), Thomas Pynchon (Mason & Dixon, «commovente quanto cerebrale, struggente quanto audace»), John Updike (Verso la fine del tempo, «come può uno scrittore così dotato produrre un libro così brutto?») e Norman Mailer, il cui Il Vangelo secondo il Figlio strappa a Kakutani un commento sottilmente feroce: «Cercando di descrivere Gesù e Dio come personaggi accessibili, Mailer li ha resi tipi contemporanei familiari: li ha fatti cadere dai loro troni celesti e li ha trasformati in ciò che conosce meglio, celebrities». Altri tempi, davvero.
Notoriamente appartata («una persona di estrema riservatezza che di rado si faceva vedere in pubblico», sta scritto nella pagina che le dedica Wikipedia, da cui si apprende solo che «è una fan della squadra di baseball degli Yankees»), la giornalista ha lasciato il New York Times sette anni fa per dedicarsi alla scrittura di quella che si potrebbe definire «saggistica di attualità». Dopo The Death of Truth: Notes on Falsehood in the Age of Trump, uscito nel 2018 e accolto in modo tiepido (basti leggere la recensione di Chris Hayes pubblicata proprio sul Nyt), è ora il turno di The Great Wave: The Era of Radical Disruption and the Rise of the Outsider: «un’analisi incalzante di come le trasformazioni politiche, tecnologiche e artistiche in corso stiano capovolgendo i vecchi parametri con una grande ondata che si abbatte sul mondo contemporaneo, creando opportunità e pericoli», se vogliamo credere alla scheda editoriale.
Non ci crede però il giornalista e scrittore Dan Kois, che su Slate stronca il libro e soprattutto si chiede come la temibilissima critica di un tempo possa essere diventata un’autrice così moscia. Il punto, secondo Kois, è che già all’epoca del suo apogeo, quando non c’era autore negli Stati Uniti che non aspirasse a un suo elogio o non temesse le sue stilettate, le recensioni di Kakutani «erano prive di una vera voce… o, per meglio dire, ne avevano una sola, quella dell’autorità, il sigillo critico del New York Times». A differenza di molti critici che hanno lavorato dopo di lei al grande quotidiano americano, «Kakutani non si è mai confrontata davvero con un libro, non in pubblico, perlomeno. Scriveva i suoi articoli con la serena sicurezza di chi ha sempre ragione, ferma nella sua convinzione di poter vedere nel cuore degli scrittori per capire quanto profondi fossero i loro sentimenti».
Quanto a The Great Wave, Kois lo disseziona senza pietà, partendo dai titoli dei vari capitoli, «simili a barocche diapositive di PowerPoint per un corso di studi della triennale su tutta la merda a cui già pensiamo ogni minuto di ogni giorno». Brutale la conclusione: il libro «è brutto». Sarà vero? Di certo in molti, negli Usa, avranno goduto nel leggere l’articolo di Slate, in base a un altro vecchio detto: «Chi la fa, l’aspetti».
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