Kafka: sono a Venezia, come un animale che giace a terra…
Franz Kafka a Venezia, fotografia appartenuta a Helena, figlia minore di Ottla Kafka (sorella dello scrittore), courtesy Hans-Gerd Koch, Wuppertal
Alias Domenica

Kafka: sono a Venezia, come un animale che giace a terra…

Vite del Novecento Lo studioso tedesco Hartmut Binder, autore di importanti contributi biografici su Kafka, ha fornito l’esatta collocazione della foto qui sotto: non è, come si credeva, la spiaggia di Travermünde, ma il Lido di Venezia, 1913
Pubblicato più di un anno faEdizione del 11 giugno 2023

La vita dei grandi scrittori rimane un continente inesplorato anche quando la critica sembra averne messo in luce ogni dettaglio. Una conferma ci viene da una singolare scoperta di Hartmut Binder, studioso tedesco fra i massimi esperti di Kafka. Autore di fondamentali contributi biografici, commentari, studi sulla letteratura praghese, Binder si è dedicato negli ultimi anni alla pubblicazione di un’immensa raccolta di immagini, fotografie, rare cartoline d’epoca, corredate da brevi e essenziali annotazioni. Preziosi volumi sul mondo storico di Kafka, l’ultimo del 2021 dedicato alla Praga scomparsa dei caffè, dei locali notturni e dei varieté alla quale l’autore della Metamorfosi fu legatissimo. Suo è anche lo studio più ampio sui viaggi di Kafka in Italia: Mit Kafka in den Süden (Con Kafka nel Sud), Vitalis 2007.

Questo paziente lavoro attraverso le immagini e sulle immagini ha reso possibile l’esatta collocazione di una fotografia di Kafka che si pensava scattata sulla spiaggia di Travemünde. Binder ci riporta invece in Italia e più precisamente al Lido di Venezia dove Kafka si recò nel 1913. La struttura che compare alle spalle dello scrittore, e di uno sconosciuto in sua compagnia, è infatti quella del Grande Stabilimento Bagni, come rivela una cartolina dell’epoca riprodotta sul Kafka-Kurier Numero 5 (Wallstein Verlag, 2023). Kafka giunse a Venezia il 15 settembre 1913 lasciandosi alle spalle una situazione a dir poco sofferta. Dopo aver scritto La metamorfosi la sua vena artistica si era inaridita. La relazione con la berlinese Felice Bauer, fatta quasi solo di lettere, lo aveva assorbito completamente ed era giunta a un punto senza ritorno, anche se ci saranno due effimeri fidanzamenti. Per scrivere gli era indispensabile un isolamento estremo, non quello di un solitario, spiegava, ma quello di un morto. La settimana precedente a Vienna aveva fatto la spola fra il convegno dell’Istituto di Assicurazioni per gli infortuni sul lavoro in cui è impiegato e l’XI Congresso Internazionale Sionista. Mondi che gli sono ugualmente estranei tanto che vorrebbe estirpare quei giorni dalla propria vita «possibilmente dalla radice».

Arriva a Venezia in piroscafo da Trieste, un viaggio «ridicolamente breve» che si trasforma in un incubo per il mal di mare. Ma poi gli si apre dinnanzi uno scenario ben differente. «Infine a Venezia» scrive, facendo eco al Viaggio in Italia di Goethe che ha con sé. Prende alloggio all’Hotel Sandwirth (oggi Gabrielli) sulla Riva degli Schiavoni dove una targa ricorda il suo soggiorno. La chiarezza del cielo è sorprendente e non avrebbe la forza di resistere se il suo stato d’animo non lo gettasse nella prostrazione. Vorrebbe fermarsi più a lungo. «Quanta bellezza c’è qui e quanto è sottovalutata da noi» scrive a Max Brod nello stesso attimo in cui un giovane gondoliere lo guarda attraverso la finestra aperta. Non sappiamo cosa abbia fatto in quei giorni. Una cartolina e due lettere sono le sole testimonianze di una Venezia che non sembra avere lasciato traccia nelle sue opere, se non forse per la figura di Casanova. Il ricordo dell’arresto, della carcerazione e della fuga nei Piombi delle Mémoires affiora infatti trasfigurato in alcune pagine del Processo.

Secondo Binder è però probabile che, come in altri suoi viaggi, abbia preferito ben presto al centro le spiagge del Lido. Una località in cui era possibile allontanarsi dalla confusione cittadina. Ma anche alimentare, dobbiamo aggiungere, una passione del tutto particolare per gli itinerari letterari, sulle tracce di Goethe e di Thomas Mann. La morte a Venezia, ricorda Binder, era uscita nell’autunno del 1912 sulla Neue Rundschau e Kafka, vorace lettore di Mann di cui si divertiva a imitare la firma, doveva conoscerla. Qualche giorno prima avrebbe potuto incrociare Adolf Loos, Karl Kraus, Peter Altenberg, e Georg Trakl che a Venezia dedicò splendidi versi. Una costellazione di grandi austriaci che ammirava, soprattutto Trakl, e che non incontrerà mai anche per un dissidio sorto fra Kraus e Max Brod.

La fotografia ritrae un Kafka insolitamente sorridente, in costume da bagno. Il Kafka amante del riso, della vita all’aperto, del nuoto sul quale ha tanto insistito Max Brod nella sua biografia per correggere, senza riuscirci, l’immagine che si stava affermando attraverso le sue opere. Ma anche in questa fotografia c’è qualcosa che sfugge, non solo per la persona che siede a fianco, ma forse per il sorriso di Kafka che fa pensare a quanto scriverà, qualche anno più tardi, a Milena Jesenská prima di incontrarla a Vienna. Se gli avesse aperto la porta si sarebbe trovata di fronte un uomo magro che sorride gentile, non intenzionalmente ma per imbarazzo e infine si siede dove gli viene indicato. «Con ciò la cerimonia sarà finita perché non parlerà quasi, per questo gli manca la forza vitale… non sarà nemmeno felice, anche per questo gli manca la forza vitale».

In quell’immagine còlta sulla spiaggia balena tuttavia anche un attimo di abbandono fanciullesco a una sorta di leggerezza e di gratuità della vita, fugace ma non impossibile e che resta impressa nella memoria. C’è nella vita come nelle lettere di Kafka un oscillare fra un significato letterale e uno metaforico, difficilmente decifrabile, che rimanda a un’altra dimensione non meno reale, quella dello spirito e della scrittura. La sincerità disarmante di molte pagine dei diari e delle lettere di Kafka convive con distanze abissali, la chiarezza del suo sguardo con l’oscurità della tana e della vita interiore, la nostalgia per la vitalità del mondo con il senso di macchia e di doversene staccare attraverso una progressiva smaterializzazione nella scrittura. È questa la nevrosi che accompagna l’esistenza di Kafka e da cui nascono le sue opere in gran parte postume. Il Kafka che sorride sulla spiaggia è lo stesso che sulla carta dell’Hotel Sandwirth si descrive a Felice Bauer come un animale che giace a terra e non è dato smuovere. «Sono qui solo, non parlo quasi con nessuno, tranne gli impiegati negli alberghi, la mia tristezza quasi trabocca, e tuttavia, mi pare, sono nella condizione a me adeguata, assegnatami da una giustizia superiore, che non mi è dato superare e che dovrò portare fino alla fine». E conclude stringatamente: «noi dobbiamo prendere commiato».

Kafka lasciò Venezia il 20 settembre. Passando per Verona e per Desenzano raggiunse il sanatorio del dottor von Hartungen a Riva del Garda, un altro microcosmo letterario dove avevano soggiornato i fratelli Mann. Qualche giorno dopo confessava a Max Brod di non avere scritto nulla, neppure nel diario. Il suo viaggiare avveniva soltanto all’interno delle stesse «caverne». Aveva il desiderio di immergersi «al centro del silenzio», in una solitudine ancora più estrema che era per lui essenziale. La solitudine degli uomini postumi che può anche essere chiamata morte, diceva Nietzsche, «e che per noi si chiama vita».

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