Nel 1918, mentre è travolto dal successo delle Considerazioni di un impolitico, Thomas Mann legge il primo volume del Tramonto dell’Occidente, e in una pagina del suo diario osserva che gli sembra prossima l’epoca dei saggi-romanzo, grandi rappresentazioni storiche, politiche o filosofiche, costruite con libertà, vastità di respiro e plasticità di ampie narrazioni epiche. Rientrano in questa tipologia di scritti, secondo Thomas Mann, oltre al capolavoro di Spengler, e alle sue proprie Considerazioni, il Diario di viaggio di un filosofo di Hermann Keyserling, il Nietzsche di Ernst Bertram e il Goethe di Gundolf.  Con queste ultime opere, sembra essere nato un nuovo tipo di biografia filosofica, destinata a prendere il posto di quelle monumentali opere positivistiche in cui l’erudizione era messa al servizio del bisogno di tradizione identitaria della nazione, fornendole una riconoscibile galleria di modelli ideali in cui specchiarsi.

Gli anni Venti avrebbero ampiamente confermato il presagio di Thomas Mann, producendo una quantità di grandi affreschi saggistico-narrativi, che ancora oggi sono modelli di riferimento per ogni tentativo di rappresentazione che ambisca a circoscrivere compiutamente la forma del suo oggetto.

Alla schiera dei grandi tentativi di abbracciare in un solo sguardo d’insieme la vita di un autore diventato rappresentativo di tutto il modernismo europeo e, quindi, dell’identità stessa della cultura continentale, appartiene la biografia di Kafka scritta da Reiner  Stach, apparsa in tre volumi in Germania fra il 2002 e il 2014 e diventata subito un successo mondiale. Lanciata al momento della sua pubblicazione come la prima, grande biografia dello scrittore praghese, l’opera di Stach intercettò un passaggio fortunato del biografismo tedesco, ed ebbe il merito di tradurlo in una forma ancora sconosciuta in Germania, il cui modello (ammesso dallo stesso Stach) è L’idiota della famiglia, ovvero la biografia di Flaubert scritta da Sartre all’inizio degli anni Settanta, con cui condivide la grandiosità dell’impianto complessivo.

L’idea dalla quale Stach si fa guidare nel dedalo della sua ricostruzione è il nesso che si stabilisce, in un’esistenza di scrittore rappresentativa come quella di Kafka, fra psicologia individuale, contesto e conflitti sociali, condizioni storiche, politiche, religiose. La creatività è il prodotto della reazione individuale (nel caso di Kafka una reazione essenzialmente difensiva) alle sollecitazioni di un contesto stratificato e assai complesso che è merito di Stach integrare nella sua visione d’insieme, senza perdere il filo della narrazione biografica.

Sul piano del racconto, un grande dinamismo è il risultato della focalizzazione, di volta in volta, su aspetti diversi della vita, della famiglia, degli ambienti di studio e di lavoro di Kafka, della società praghese, dei circoli intellettuali della capitale boema, e così via. In questo modo, la storia della vita non conosce momenti di stanca e tiene avvinto il lettore senza mai ripetersi.

Sul piano concettuale, il risultato è ancora più notevole, perché la condizione dello scrittore viene rappresentata come il prodotto di un confronto-scontro con le energie sociali in movimento intorno a lui: la scrittura di Kafka è dunque l’esito di una sensibilità reattiva trasformata in un raffinatissimo strumento analitico, attraverso il quale prende forma il quadro di una stagione della cultura europea che a Praga trova un punto di aggregazione di straordinaria importanza.

Non molto di tutto questo, in realtà, si trova nel primo volume della biografia, ora tradotto da Mauro Nervi: Reiner Stach, Kafka I primi anni (Il Saggiatore, pp.704, € 45,00). Al lettore italiano può essere utile sapere che questo volume venne scritto per ultimo: Stach cominciò la sua biografia a partire da quella che oggi costituisce la seconda parte della trilogia, considerando la questione del «primo Kafka» sostanzialmente risolta dalla bella e documentatissima biografia della giovinezza di Klaus Wagenbach, che nel 1958 aveva rappresentato una vera e propria rivoluzione negli studi kafkiani e, di aggiornamento in aggiornamento, ha poi sempre mantenuto il suo valore e la sua freschezza. La circostanza ha un suo peso, perché il nucleo centrale della biografia di Stach risiede proprio nel volume, il secondo, che per la prima volta ha compiutamente indagato gli anni che segnano la nascita del Kafka scrittore.

In quel volume Stach – oltre a tutto quanto si è detto – aveva come scopo una vera e propria demistificazione della figura di Kafka: non più l’artista romanticamente votato al massimo sacrificio in funzione della letteratura, lo scrittore-santo caro alla memoria dell’amico Max Brod, ma un autore straordinariamente concentrato sulle proprie scelte letterarie e consapevole delle sue doti eclatanti, segnato da grandezze e debolezze come chiunque, talvolta meschino e altre volte quasi dispotico, risoluto a perseguire i suoi fini sia pure fra grandi difficoltà e, soprattutto, ben legato a Praga e ai suoi ambienti culturali.

Il primo volume della biografia pone, a posteriori, le basi per lo sviluppo di questo quadro. Qui, se si vuole, la scrittura di Stach è ancora più brillante che nelle parti successive. Laddove si tratta di «normalizzare» Kafka, il suo biografo calca persino la mano: i capitoli dedicati alle prime esperienze erotiche o alle frequentazioni di bordelli sono certamente interessanti e fondati sulla testimonianza diretta di Kafka, ma perseguono il loro intento con una dovizia di particolari, forse, non dovuta. Per prendere un solo caso, l’excursus su Weininger che correda il capitolo «Seduzioni» è largamente basato su congetture e rischia di affibbiare a Kafka una patente di misoginia che non necessariamente gli si attaglia.

Più in generale, tutto il volume – anch’esso omaggio al precedente sartriano – è un ritratto dell’artista da giovane in cui non solo l’artista è ancora lungi dallo sbocciare, ma il suo embrione creativo è ancora tutto intento a percorrere le erratiche vie della ricerca di sé. Di più: i capitoli in cui sono i primi esperimenti poetici a occupare la scena risaltano poco. È ben vero che uno dei principi-guida di Stach è la rinuncia all’interpretazione degli scritti di Kafka: quando si tratta di affrontare la dura scuola che lo scrittore si impone mentre lavora a Descrizione di una battaglia o ai Preparativi di nozze in campagna, il tono di Stach si adegua a una misura compassata, che ricapitola riflessioni altrui senza osare voli ermeneutici. Giusto così: una biografia con propositi demistificanti ha anche il dovere di tenersi a distanza dalla tentazione di scorgere nessi meccanici fra opera e vita, quindi il distacco critico è forse un necessario imperativo deontologico.

Stach è un formidabile costruttore di sintesi: il suo Kafka nasce, in queste pagine, da un incrocio di storia delle mentalità, storia del costume, storia della cultura, storia economica, storia sociale e psicologia. Nelle pagine dense e piacevoli di questa sua biografia ci si addentra sempre con la certezza di poterne ricavare, alla fine, informazioni importanti e conoscenze significative. Grazie al suo libro (e ai tanti altri che ha dedicato sempre e soltanto a Kafka) la tecnica, se non l’arte, della biografia in Germania ha compiuto un passo avanti decisivo.

La comprensione della scrittura kafkiana passa, tuttavia, per le vie dell’interpretazione, e una futura scienza della biografia dovrà porsi la questione di quali siano i modi e le forme attraverso cui potrà essere possibile unire il racconto di una vita d’artista al solo elemento che non può essere eluso: la traduzione della sua volontà nell’opera che ci ha lasciato.