Decima edizione per Torino Jazz Festival che spande il suo raggio d’azione nella città fra i teatri, coprendo la rete fitta dei jazz club e – per i grandi eventi – occupando le sale (bellissime) delle Ogr. Tjf dal jazz parte ma – come sottolinea Giorgio Li Calzi, insieme a Diego Borotti direttore artistico della manifestazione piemontese – accoglie molte altre contaminazioni: «Il jazz ha sempre rappresentato la libertà e la fusione tra le comunità e le culture. E proprio questo rappresenta la nostra filosofia». Stretta sotto una cappa di afa feroce, Torino ha recepito con favore le nove giornate di appuntamenti concluse domenica con il concerto di Jimi Tenor e Umo Helsinki Jazz Orchestra. Pubblico molto numeroso a riempire le sale che hanno ospitato gli eventi, ben 50, 27 dei quali nella programmazione dei jazz club, 6 talk, 22 jazz blitz e oltre 30 musicisti coinvolti nella kermesse.

PROGRAMMA ricco che si è aperto sotto il segno del centenario dalla nascita di Charles Mingus, «celebrato» da contrabbassisti di genio e talento come Paolino Dalla Porta, Davide Liberti, Furio di Castri ospitando al teatro della Vittoria Buster Williams in un iconico – e sentito – Solo for Mingus. Tjf è vissuto anche nella ibridazione di stili, fra musica e letteratura come nell’incontro tra Jonathan Coe – nella veste di tastierista e Artchipel Orchestra, nel tributo a Armando Trovajoli dove hanno trovato spazio padre e figlio Dino e Franco Piana. E nelle giornate conclusive Tjf ha accelerato questa trasformazione in luogo di sperimentazione. Incanta così nella sala Fucine l’apparizione del quartetto composto da Jan Bang, Arve Henriksen, Roberto Cecchetto, Michele Rabbia, protagonisti di un live set dove le diverse anime dei musicisti escono senza mai sovrapporsi. C’è l’abilità di Jan Bang che come pochi sa miscelare i suoni elettronici e creare atmosfere oniriche per la tromba di Henriksen, i timbri di Cecchetto e il drumming elegante di Rabbia.

Accompagnat* da Hinako Omori alle tastiere ha portato a Torino un live set intenso, giocato su una scenografia sobria – l’albero della vita che si staglia sul fondo del palco – un sapiente gioco di luci, e le liriche taglienti e commoventi che fondono rap e spoken word

EQUILIBRIO più difficile per la produzione originale commissionata dal Tjf a Jason Lindner, visionario musicista newyorkese che ha collaborato anche con Bowie nel suo testamento artistico, Blackstar che insieme al bassista Panagiotis Andreou e il batterista Obed Calvaire, vera macchina del ritmo, a cui si aggiungono nella seconda parte del set il tastierista Dario Bassolino e la vocalist Linda Feki (LNDFK), hanno dato vita a una produzione che mescolava jazz, techno ad ambienti sonori anni settanta. Operazione monca e che solo a sprazzi trovava la giusta quadratura. Giovane all’anagrafe ma con un curriculum lunghissimo alle spalle, Trixie Whitley, polistrumentista e cantante, figlia del songwriter Chris Whitley, arriva da esperienze che vanno dalla batteria che suona con grande autorevolezza, ai dj set, passando per collaborazioni importanti come quella di front woman del gruppo di culto Black Dub di Daniel Lanois. Al Tjf ha portato insieme al batterista Jeremy Guster e Daniele Mintseris alle tastiere, un repertorio dove il rock si alternava a ballate (Breath You in My Dreams) che mettevano in luce una vocalità espressiva e potente che ha ribadito in una performance piano e voce per uno speciale di Radio 3 di Sei gradi di separazione – nella sala Duomo delle Ogr – condotto da Paola De Angelis. In una recente intervista ha confessato la sua totale passione «per le parole», il riassunto perfetto della carriera di Kae Tempest passata tra poesie, apprezzate opere teatrali saggi e dischi. Nell’agosto del 2020 con un post sui profili social ha comunicato la sua identità di genere come persona trans non-binaria, da Kate il nome è diventato Kae e ha adottato i pronomi they/them (loro). Il nuovo album – il quarto in carriera – The Line Is A Curve, è il primo con il nuovo nome e con il suo ritratto in copertina. Disco dove completa la transizione da un repertorio più classico a un’elettronica spinta che pesca a piene mani dagli anni ottanta ma che Kae dimostra dal vivo di maneggiare con consumata abilità. Il suo lirismo crudo è ispirato alla sua citta, Londra, e a un personale e anche drammatico percorso dove si agitano storie che raccontano di razzismo e disagio sociale.

L’APPROCCIO con il pubblico è solare: «Grazie a Torino, non conoscevo la città ma mi è tornata subito familiare. Poi ho girato l’angolo e ho scoperto che oggi (sabato, ndr) ospitava il Pride. Mi sono sentita a casa». Accompagnata da Hinako Omori alle tastiere ha portato a Torino un live set intenso, giocato su una scenografia sobria – l’albero della vita che si staglia sul fondo del palco – un sapiente gioco di luci, e le liriche taglienti e commoventi che fondono rap e spoken word, dove ricorrono invocazioni all’amore, alla solidarietà, alla resistenza e alla tolleranza.