La storia della Juventus nella Champions League (fino al ’92 denominata Coppa dei Campioni) è la prova che esiste quelque part quella che Gianni Brera battezzò Eupalla, Dea e insieme Musa del gioco del calcio, come tale imprevedibile. I numeri sono impietosi: appena due finali vinte (1985 e 1996) su nove disputate, peggio del Benfica su cui pesa tuttora il celebre anatema pronunciato da Béla Guttmann in procinto di andarsene dal club per disaccordi economici dopo la vittoria, nel ’62, sul Real di Di Stéfano e Puskas. Ma a parte i capricci di Eupalla, non esistono teorie in grado di chiarire la natura di un fenomeno che affligge nei decenni una parte eminente della tifoseria italiana nello stesso momento in cui ne esalta la corrispettiva e avversa, a meno di avallare i contrapposti deliri dove si rimpallano vittimismo, complottismo e illazioni di natura astrologica. E tuttavia lo stato di relativa penuria internazionale della Juventus è un fatto così affascinante, secondo etimologia, da meritare la ricognizione che Giuseppe Pastore ne fornisce con Ma che Coppa abbiamo noi La maledizione europea della Juventus (66Tthand2nd, «Vite inattese», pp. 250, euro 18,00), una monografia bene informata, scritta sine ira et studio e introdotta da un maestro del nostro giornalismo sportivo quale Roberto Beccantini.

Lo sguardo di Pastore non procede per lineare cronologia ma per raccordi interni che comunque rispettano le unità di tempo e di luogo. I trentacinque capitoli monografici vanno dall’eliminazione dello scorso anno nella fase a gironi (decisiva la sconfitta comminata in Israele da una squadra di struggente mediocrità, il Maccabi) alla sconfitta eclatante nel maggio del 1983 subìta dall’Amburgo, squadra in sé modesta ma allenata da un tecnico viennese di eccezionale caratura, l’impenetrabile Ernst Happel. Se non la maggiore di sempre, quella di Atene era una Juve mirabolante dove militavano ben sei campioni del mondo (Spagna 1982), vale a dire Dino Zoff, i terzini Gentile e Cabrini, l’indimenticabile battitore libero Gaetano Scirea, la mezzala Marco Tardelli (forse il centrocampista italiano più duttile e completo di sempre) oltre a due fuoriclasse stranieri, il polacco Zbigniew Boniek (mai domo, una seconda punta che sapeva infierire a folate) e nientemeno Michel Platini, insigne stoccatore e regista di esattezza cartesiana. In realtà quella finale durò meno di dieci minuti, fino a quando il quidam de populo Felix Magath calciò di sinistro e da lontano un pallone che voleva essere un cross ma divenne per via un tiro a palombella, appena sotto l’incrocio dei pali, imparabile per Zoff. Poi il nulla bianconero, la mesta impotenza di una squadra spettrale mentre l’altra era incredula, persino, di tanta vittoria. Fatto sta che Magath, oggetto immediato di un adorante encomio sui muri di tutt’Italia, di colpo diviene l’eroe eponimo e anzi il mito identitario dell’anti-juventinità, quasi fosse il vindice supremo. In un passaggio della sua trattazione, Pastore storicizza il mito di Magath che non sarebbe possibile solo dieci anni prima per il semplice fatto che l’anti-juventinità trova un primo coagulo ed una voce pubblica soltanto con il gol di Turone annullato in Juventus-Roma del 1981, un gol la cui regolarità è tuttora controversa (e qui si veda in Raiplay il recente documentario di Francesco Miccichè e Lorenzo Rossi Espagnet, Er gol de Turone era bono): un annullamento che tuttavia la Rai, allora in regime di monopolio e a dominante romanista, propala a futura memoria e alla stregua di una rapina.

Pastore decostruisce la nascita del mito che, pari ai più antichi, nasce in Atene connettendosi al maggiore degli stereotipi invece relativi a Torino, per proverbio città della magìa: «Eppure spira un’aria strana, di vittoria anticipata. L’Italia è ancora un paese calcisticamente ingenuo: non ancora del tutto captato dai radar dei grandi giornalisti, inizia a serpeggiare un sentimento popolare anti-juventino forse il cattivo odore del tifo contro non è ancora arrivato ai piani inferiori, dove il popolo è ancora in piena luna di miele col calcio». Quanto a Magath il vindice, ebbe predecessori e successori. Tra i primi va collocato Enrique Perez Diaz detto Pachìn, persecutore di Omar Sivori nelle partite che nel ’62 opposero ai quarti di finale la Juve al Real Madrid (pochi ricordano che, con lo 0 a 1 della partita di ritorno, la Juventus fu la prima squadra a espugnare – per maligna zampata di Sivori – lo stadio Bernabeu inviolato da sette anni in Coppa dei Campioni): nella gara d’andata Pachìn provocò verbalmente El Cabezòn avendone in cambio una testata ma seppe vendicarsi nella partita di spareggio a Parigi, vinta dal Real per 3 a 1, colpendo a ripetizione l’asso italo-argentino. Tra i successori nessuno ha l’aureola di Magath e per lo più si tratta di figuranti epigoni, tra gli altri Pedrag Mijatovic (ancora del Real, nella finale di Amsterdam 1998) il quale segnò, alcuni giurano, in fuorigioco di un metro, l’ex laziale Karl-Heinze Riedle (doppietta in quella di Monaco ’97, perduta contro il Borussia Dortmund) per tacere dello stesso Leo Messi, firmatario del gol decisivo in Barcellona-Juventus 3 a 1 (finale di Berlino 2015). Pastore ne segue la trafila evitando le trappole del libro a tesi e presentando come «naturale» ciò che è fatale secondo l’assioma breriano per cui il calcio è sempre logico e però a posteriori. Lo stile di Pastore ha ritmo e un piglio che poco concede agli ammicchi del giornalismo (fa eccezione il titolo, infelice, che sembra un’apertura della Gazzetta dello Sport). Puntali sono i riferimenti storici, a parte qualche sbavatura filologica perché Gianluigi «Roveda» (p. 78) non è mai esistito, bensì Roveta, riserva dei primi anni settanta; perché il castigliano Luìs Del Sol, ex Real addirittura, nella squadra del ’67 allenata da Heriberto Herrera che soffiò lo scudetto all’Inter e l’anno dopo fu estromessa in semifinale dal Benfica, non era un «regista» (pp. 76 e 139) ma un infaticabile «cursore», come allora si diceva, dacché regista della squadra che il Monarca in persona, Gianni Agnelli, spregiava come «socialdemocratica» era in effetti un brasiliano di Rio Grande, Sidney Cunha detto Cinesinho; perché infine, a proposito di squadre che corressero troppo, Gianni Brera non avrà parlato di una improvvida «erezione agonistica» ma di «eresia», termine che affibbiò al grande Ajax e all’Olanda ‘74 di Johan Crujff.

Ma a parte le minuzie, resta del lavoro di Pastore il diagramma di una di una mentalità molto diffusa in cui convivono un amore profondo e un odio implacabile. Magari gli anti-juventini militanti mai lo penserebbero ma in una delle grandi partiture saggistiche del Novecento (L’atelier di Alberto Giacometti, 1958) Jean Genet riferisce in prima persona del fatto che l’odio, l’invidia, il rancore sono forme inconsce e tanto più violente dell’ammirazione. Da tifoso milanista lo ammise lo scrittore Oreste del Buono, citato da Pastore: «L’odio nasce dall’ammirazione più sconfinata, da un senso di inferiorità talmente acuto da risultare patetico e vergognoso. Mi dispiace ammetterlo, non appartenendo io ai tifosi bianconeri, ma è la pura, anche se ostica, verità».