In passato, i contadini avevano un’arma per proteggere se stessi e la propria famiglia. Se la loro vita era minacciata, avevano il diritto di uccidere. Il governo durante il periodo Meiji li privò tutti delle spade e fu così proibito loro di uccidere gli altri. Oggi solo lo Stato e le multinazionali hanno la capacità di uccidere: sono infatti i nostri nuovi padroni. Noi li malediciamo a morte. Li malediciamo a morte e nient’altro. Questo è l’ultimo atto del nostro terrorismo buddista».

Queste sono solo alcune delle estreme dichiarazioni che accompagnano una piccola mostra appena conclusasi nel quartiere di Asakusa, a Tokyo. Una mostra che però apre una grande breccia nella percezione dei movimenti di protesta avvenuti durante gli anni settanta nell’arcipelago e del loro intreccio con la questione ecologica. Intitolata Dark Ecology, si tratta di un’esposizione di fotografie e di dichiarazioni del Jusatsu Kito Sodan, collettivo di monaci buddisti. Questo gruppo di monaci si recava nei luoghi dove l’inquinamento provocato dall’uomo aveva dato luogo a gravi malattie e sconvolto interi ecosistemi. Sfilando in processione, declamando mantra e accompagnandosi con strumenti tradizionali, il collettivo malediceva a morte i proprietari delle grandi compagnie responsabili di questi disastri ecologici.
Le evocative fotografie in bianco e nero con i monaci in cammino per la città o in sit-in di protesta davanti i grandi complessi industriali che criticavano, furono scattate in varie occasioni da Hanaga Mitsutoshi (1933-1999), fotografo di fama internazionale, noto soprattutto per il suo impegno a documentare i movimenti giovanili giapponesi e le frange dell’arte più sperimentale che animavano la capitale, specialmente nella seconda metà del secolo scorso.

All’incrocio fra pratiche del buddismo tantrico e happening provenienti dal mondo dell’arte d’avanguardia, il collettivo sfruttava il fatto che maledire a morte qualcuno attraverso dei mantra non era penalmente perseguibile. Oltre a questo aggressivo e conflittuale modo di porsi verso i danni ecologici del grande capitalismo giapponese, il gruppo era solito anche visitare le abitazioni delle zone colpite da queste eco-tragedie e pregare per le vittime. Ecco allora che le foto di Mitsutoshi immortalano i monaci portare il loro canto di protesta in zone quali Minamata, nel Giappone meridionale, dove per mano dell’azienda Chisso le acque della zona furono inquinate con irreversibili danni neurologici su intere generazioni di abitanti. Oppure altre immagini dove il gruppo buddista sfila con alle spalle il grande complesso petrolchimico di Yokkaichi, nella prefettura di Mie, dove a partire dagli ultimi anni cinquanta si cominciarono a notare delle disfunzioni respiratorie su gran parte della popolazione del luogo e un forte inquinamento sulla fauna ittica delle acque marine limitrofe.
Come è successo in molte altre parti del pianeta, la veloce modernizzazione che l’arcipelago aveva subito a partire dalla fine degli anni cinquanta e il conseguente benessere acquisito da larghi strati della popolazione, ha avuto il suo lato oscuro e tragico in una serie di danni ecologici i cui effetti continuano ancora oggi. La visione buddista portata avanti dal collettivo non si fermava quindi ai danni subiti dall’uomo, ma, con una visione estrema in linea con quelli che erano i loro principi guida e un sentire che è più che mai attuale, cercava di portare avanti un’ecologia che non veda l’essere umano al centro dell’universo, bensì la vita, in tutte le sue declinazioni.

matteo.boscarol@gmail.com