Sono passati più di due decenni da quando il miliardario John Hammond, interpretato dal deceduto Richard Attenborough ha fatto rinascere su un’isola deserta i dinosauri grazie al gene degli insetti conservati nell’ambra. Oggi il suo sogno è diventato un Parco a tema di lusso, Jurassic World, dove famiglie in cerca di emozioni «autentiche» si riversano per ammirare quegli animali preistorici pagando il brivido dell’eccitazione protetta da una raffinata tecnologia. Tutto è minuziosamente organizzato a Jurassic World anche la paura. I visitatori sono seguiti da decine di telecamere che li osservano viaggiare nella prateria giurassica sul «super bowl», una sorta di navetta spaziale ma su binari che l’esperto (pure lui digitale) promette a prova di qualsiasi aggressione, rabbrividire di fronte al dinosauro che salta dall’enorme piscina per agguantare un pescecane calato dalla gru, affollare i negozi di gadget, i ristoranti e i bar.

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Ma come impone la banalissima legge di mercato sfoderata dalla responsabile del Parco, Claire (Bryce Dallas Howard) al flemmatico proprietario di Isla Nubar, per mantenere alto l’appeal sui visitatori (e i guadagni) c’è bisogno di continue novità, di nuove specie sempre più agghiaccianti. E intanto i dinosauri di maggior pericolo, i velociraptor, sono stati inseriti in un progetto di addestramento guidato dal sexy ruvido ex soldato (marina) Owen (Chris Pratt).
La stessa regola (aurea) potrebbe valere per questo nuovo episodio, il quarto della saga ispirata all’universo di Michael Crichton di cui Spielberg autore dell’indimenticabile Jurassic Park (’93) e de Il mondo perduto (’97) mantiene la produzione esecutiva.

Alla regia troviamo un nome quasi sconosciuto, Colin Trevorrow, trentottenne che nel ’93, l’anno di Jurassic Park aveva più o meno la stessa età di uno dei due ragazzini protagonisti del suo film. E che quel probabile mito dell’adolescenza omaggia con citazioni esplicite, la t-shirt che indossa il supervisore della sala di controllo del Parco perennemente inadeguato (lui stesso?), e il ritorno nel garage in cui i personaggi spielberghiani fuggivano i temibili velociraptor.

La patina «vintage» però non basta a sottrarre il film (con un «continua» già annunciato) dalla stanchezza della serialità forzata, e nonostante le meraviglie della tecnologia digitale – budget di 150 milioni di dollari, circa 134 milioni di euro – che mettono in primissimo piano denti e artigli e gola del dinosauro,paradossalmente (o forse no) l’irriverenza inventiva sembra essersi evaporata.

«Abbiamo un problema» chiosa Claire al seduttore Owen dall’alto dei tacchi su cui rimarrà impassibile sfidando la giungla e la catastrofe. Il problema si chiama Indominus Rex, la nuova attrazione, un dinosauro femmina intelligentissima programmata dall’infido biologo (asiatico) su ordine dell’untuoso capo della sicurezza della Ingen per uccidere. Un’arma chimica «naturale» da sperimentare nel Parco per poi utilizzarla nelle guerre americane Afghanistan o ovunque ce ne sia bisogno – sappiamo tanto come è andata in Iraq a proposito di armi chimiche, no?

Solo che la natura rimane orgogliosamente indomita come mostrano gli effetti delle nostre umane devastazioni, onde anomale, terremoti: lo tsunami si abbatterà sul Parco e a complicare le cose proprio quando i due nipoti di Claire, due fratelli, sono lì in visita e lei li ha lasciati da sola invece di seguirli nel momento difficile della separazione dei genitori.

Se da una parte Trevorrow ammicca a tutti i codici possibili del cinema classico catastrofico, l’eroina controllata (pure lei!) che immergendosi nella giungla si libera e tira fuori energia e sensualità alla King Kong (più qualche nota «politica» militarismo, ambiente ecc), dall’altra Jurassic World come gli Hunger Games è un romanzo di formazione binario mascherato nella sfida dell’avventura. I due fratelli sono infatti ragazzini spaventati più che dai «mostri» dalla vita, dal fantasma della separazione dei genitori, dalla paura del futuro, e si promettono di restare uniti qualsiasi cosa accade. Anche se come dice il maggiore prima o poi bisogna crescere. Già.

E tra l’altro scopriremo che anche la indomabile Indominus ha un fratello da qualche parte forse meno perfido (le femmine si sa sono sempre più cattive) di lei.

Quello che manca – ma Trevorrow nemmeno ci prova – nonostante gli inseguimenti stressanti e i molti umani divorati e rettiloni ammazzati è il conflitto (del cinema), uno spazio ambiguamente visionario come era il desiderio iniziale di ricreare gli animali preistorici a misura degli uomini che in quel paesaggio primordiale non esistevano. In cui tutto diventava possibile, anche reinventare un’epoca nell’immaginario stravolgendo le regole della spettacolarità in questo incontro tra uomo e animale, lo stupore e il terrore,il caos e la inevitabile sconfitta.

Qui rimane soltanto il lampo negli occhi di Blu, la piccola velociraptor sospesa tra natura ancestrale, istinto feroce e seduzione dell’umano che prima di sparire si volta verso il «suo» uomo esitando appena un attimo. Ma questa è già un’altra storia.