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Julio Bressane, filmare il dislimite

Julio Bressane, filmare il dislimitedal documentario "Belair"che rievoca la stagione dell'"udigrudi" brasiliano di Bressane e Sganzerla

Ultravista Una raccolta di saggi del grande sperimentatore brasiliano concepiti per navigare a vista tra lettere, visioni e ascolti fuori dal limite. Il grande sperimentatore parla del suo cinema, traduzione di suggestione e forme plastiche

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 28 febbraio 2015

Dislimite, raccolta poetico-visionaria di scritti di Julio Bressane, è uscito nella collana Liliom diretta Lorenzo Esposito, per la casa editrice Caratteri Mobili. «Dislimite è un neologismo» Mi dice Bressane con quella sua parlata consapevole e lenta, «una parola inventata dal poeta Haroldo de Campos, a proposito di un testo che scrissi su Limite, il film di Mário Peixoto. Il prefisso «des» indica distanza, un passaggio di confine, ciò che sta fuori dal limite». Una poetica osmotica, di permeabilità reciproca tra stili e linguaggi, un cinema «organismo intellettuale smisuratamente sensibile, che attraversa le frontiere tra tutte le discipline e le arti», un dispositivo intellettivo-vibratile in cui la chimica, la danza, l’ottica, la letteratura, la musica, ecc. si fanno logosegni percettibili dell’emozione del regista. Scrivere gli serve «per riflettere, per poter com-prendere e com-prendersi». Cercare i semi di questo «dis-limitare» e «dis-limitarsi», significa navigare «a vista» nel mare sconfinato delle sue letture, delle sue visioni, dei suoi ascolti. «In Cleópatra» mi ragguaglia sorridendo «ho cercato di parlare tutta la lingua, tutte le sue sonorità, come fosse una musica di carnevale, ma la ho fatta parlare in Portoghese, quasi uno stupro». Un’operazione trans-iconica, questo Cleópatra del 2006, che ri-metabolizza il vasto repertorio pittorico dedicato alla dea-regina secondando l’inesausta reversibilità della sinonimia intersemiotica. Traduzione «foto-plastica» in immagini suggeritrici, che scansano la bonaccia della traduzione letterale: «traduzione di suggestione», dice Bressane. «Ho studiato almeno settanta, ottanta quadri che hanno come soggetto Cleopatra, oltre all’ «archeologia estetica» che emerge attraverso la numismatica, e i ritrovamenti di reperti oggettuali delle escavazioni archeologiche in area alessandrina». Bressane l’onnifago attinge a fonti eterogenee per creare un nuovo «segno Cleopatra» sconosciuto al Brasile. «Il poema che fonda la lingua portoghese Os Lusíadas (1572) di Luís de Camões, contiene a malapena un verso dedicato a Cleopatra. La si conosceva solo come allegoria carnascialesca. Il mio tentativo è stato quello di importare questa figura complessa all’interno del nostro tessuto culturale». «Cleopatra è una invenzione di Plutarco», dice «nelle sue Vite Parallele: cinque pagine della Vita di Giulio Cesare e dieci pagine della Vita di Marcantonio. Nulla più». Ma il suo segno esonda da questo perimetro, mette in scena gli anni negletti dal biografo dei Cesari: «Cleopatra si suicidò ben cinque dopo la morte di Marcantonio ma nessuno ne ha mai parlato, solo il mio film ». Ontogenesi di segni ed emozioni attraverso la traduzione in forme plastiche, per un cinema dominato da una implacabile logica traduttoria,: «Tutta la creazione è un processo di traduzione, poiché dal nulla non si crea, serve qualcosa che susciti una prima suggestione che poi traduci nella tua idea-opera». Traduzione-suggestione-plasticità della luce con cui fagocita Lisbona e il suo cittadino amatissimo: Fernando Pessoa, in O Batuque Dos Astros, pellegrinaggio votivo nei luoghi del poeta, “psico-mentary” dal montaggio schizzoide e nemico della coerenza narrativa. Montaggio per imprevedibili corrispondenze interiori con l’eteronimica identità di Pessoa, suggestioni, per l’appunto, traduzione dislocativa del significante “Pessoa” in rivoli di plasticità cangiante.
Un film su «quella corrente marina, cosmica» afferma, «che portò Pessoa dal Portogallo in Brasile, e sulle trasformazioni cui andò incontro durante il tragitto». Un’importazione che non avviene «leggendo le sue poesie, ma creando un’immagine della sua poesia. Nel 1970, infatti, in Brasile furono girati ben sette film a partire dai suoi testi, come tentativi di dare un’immagine possibile di quei significanti, esponendo l’universo sonoro, sintattico, la “poesia della grammatica” di Fernando Pessoa.»
«Voci nuove, difformi sonorità, si sovrapposero alla sua poetica in America Latina, soprattutto a causa della dizione degli attori popolari Brasiliani»
Un documento sul Pessoa uomo di cinema che «scrisse sette film e il progetto di una casa di produzione-distribuzione, la Ecce Films Lisboa, di cui aveva disegnato perfino il logo, ben prima di aver edificato, era il’22, l’opera monumentale per cui è noto»
In questo documentario affettivo Pessoa è il grande assente, se si eccettua la sua statua feticisticamente venerata dalle orde di turisti inconsapevoli e ottusamente obliata dagli autoctoni.
Statua, cioè ritratto, e Bressane scrive:«il ritratto ci fa pensare a colui che è ritratto. Somiglianza, contiguità, causa vive il fotogramma nell’atlante della memoria», siamo già in Rua Aperana 52, il film in cui ritornano i filmini e le vecchie foto della sua famiglia che dislimitano e si fanno film, i pezzi dei suoi stessi film dedicati ai luoghi-totem del suo cinema, che rompono gli argini dell’opera di appartenenza per forgiarne una nuova. Fotograma, fototrama, fotodrama.
«E’ un film di finzione…è l’invenzione di un paesaggio scelto a caso, di cui una persona, che per caso sono io ma che potrebbe essere chiunque altro, ritrova le registrazioni fissate nell’arco di sei anni, le registrazioni di quella finzione che è implicita in ciò che definiamo “autobiografico”, perché l’azione stessa del ricordare è una forma di re-invenzione, è sovrapposizione di qualcosa di tuo, la tua sensibilità, al soggetto del ricordo, che invece non ti appartiene e che ne esce reinventato, falsificato.
Quando scegli quel paesaggio, “fingi” che sia tuo, ma in realtà esso è gravido di memorie di altri. Prima che tu te ne potessi appropriare, per esempio, è stato un paesaggio preistorico su cui poi si sono depositate le memorie di un numero infinito di suoi abitanti che lo hanno calpestato per millenni, memorie immanenti e vive insieme alle tue, senza che tu lo sappia. »
« anche le pietre parlano, parlano e rispondono, Queste immagini parlano e rispondono a qualcosa di oscuro, sono memoria incosciente del tempo».
Memorie tradotte dalla fissazione della luce, micrograni di luce-emozione, che l’ombra orchestra sulla carta fotografica o su quella pellicola che, ri-attraversata da altra luce, (cinema della trasparenza) ridona immagine.
«La memoria, posta in allerta, restituisce ai sottili grani di luce la sua materia vitale, sbiadita dal grattare degli anni» (Dislimite, p.89).
Ed è seguendo il filo di questa luce, ma stavolta di quella lunare, che arriviamo a Educazione Sentimentale, film-saggio di dislimitamenti infiniti tra cinema, danza, pittura e letteratura in cui la luna ritorna, lucore diafano, sdoppiata e moltiplicata, come simbolo di una concezione eliocentrica del mondo.
«Aurea, il personaggio femminile incarna la metalità elio-centrica, espulsa dal mondo e opposta a quella geo-centrica, oggi dominante. Confronto due concezioni della vita e della morte. ».
Bressane stigmatizza il geo-centrismo imperante degli ultimi cinque secoli, che ha espunto l’idea dell’effimerità di questa vita, della nostra finitezza, «l’idea di una morte elevata a infinito tipica della concezione eliocentrica» che ristabiliva il valore vero della vita, la quale «in assenza della morte perde qualunque senso, è una imbecillità senza sentimento.»
«L’amore di una dea per un pastore» dice Bressane spiegando l’amore della più anziana Aurea per il giovane coprotagonista. La luna amorosa, la diva Selene che bacia Endimione dormiente ne “Il sonno di Endimione” di Anne-Louis Girordet-Trioson. Sono molti i richiami pittorici, in quasi ogni scena di interni vediamo quadri, il dislimite che ritorna. «La questione pittorica in questo film ha a che fare con la genesi della pittura, con l’archetipo della grata, il principio fondativo della pittura del sezionare il reale in campiture geometriche. Normalmente si usa una grata per ritrarre un paesaggio, ma in questo film a essere importante è la grata in sé, non il paesaggio. L’oggetto del film, in pratica è il film stesso, cosa dovrà accadere nel prossimo fotogramma, come arrivare al passaggio successivo. Un cinema curvato su se stesso, in cui il vero protagonista è l’atto stesso di fare il film.»
E poi c’è la lunga danza di Aurea «una rappresentazione simbolica dell’atto sessuale, del superamento della morte, la religiosità della forza cosmica del corpo. Nel film è in gioco la qiestione della ritenzione dello sperma. Una questione religiosa che lei difende, il prolungamemto infinito dell’immagazzinamento del piacere. E’ questa la questione del film, ed è una questione di educazione al corpo, di educazione sentimentale.»

L’INTERVISTA

La kermesse barese curata da Luigi Abiusi e realizzata in collaborazione da Apulia Film Commission e Uzak, trimestrale militante di cultura cinematografica liminale, ha aperto i battenti in grande stile con Julio Bressane, regista visionario del Cinema Novo Brasiliano, anarchista dei linguaggi e fagocitatore di stili difformi. Lo incontro nella Hall dell’albergo che lo ospita, tra divanetti di velluto e specchi, con l’indispensabile compagnia di Antonio Parente (Apulia Film Commission), che per l’occasione ci farà da interprete in questa «tortuosa camminata lungo i sentieri della significazione.»
L’audio dei suoi film si stacca dalle immagini e diventa pratica straniante, de-realizzativa...
Io mi limito a estremizzare alcune dinamiche fisiologiche del linguaggio filmico. La prima teorizzazione espressa dal punto di vista della pratica filmica della separazione suono-immagine è di Bresson, nella scena della pulizia delle latrine in Un condannato a morte è fuggito, nella quale risuona Mozart, creando il contrasto. Il cinema consiste nell’unione di codici e discipline eterogenei, non è una «settima arte» staccata dalle altre, ma un’organismo intellettuale smisuratamente sensibile in grado di attraversare tutte le discipline e le arti: la fisica, la letteratura, la danza, la pittura ecc, che ne sono i logosegni. Logosegni che mutano eppure non mutano identità: continuano a esistere come musica, pittura, ma al contempo si trasformano in forme plastiche luminose, «altro da sé», diventano film. E il farsi del film tutto risiede in questo attraversare le frontiere tra le sue componenti, nel suo essere un significante unitario che in esse si «disloca»: le immagini suggeriscono suoni, parole e suoni si possono vedere. Nella mia pratica del cinema cerco di radicalizzare questa dinamica dialettica e separativa, sperimento soluzioni nuove, perché credo che lo spirito sperimentale sia il solo in grado di mantenere vivo il cinema, come fare un film partendo dalla sola musica o realizzandola contemporaneamente alle immagini, con l’orchestra sul set.
Citando Abel Gance lei ha spesso parlato del cinema come di una «musique de la lumière», musica della luce…ne parliamo?
È un modo per distinguere il «cinema della trasparenza» da quello «dell’opacità», il cinema fatto di pellicola da quello digitale. L’uno si fonda sull’attraversamento da parte della luce di una pellicola, sulla quale zone d’ombra creano i contorni e i volumi delle cose, l’altro «viaggia» in direzione opposta, nel senso che si fa illuminando solo certe porzioni di una superficie, lo schermo digitale, di per sé opaca, buia. Tesi e antitesi: uno «scolpisce» la luce attraverso l’ombra, l’altro scolpisce l’ombra attraverso la luce. La musica della luce è il cinema della trasparenza, nel quale le zone d’ombra orchestrano, la luce alla stessa maniera con cui la musica organizza e scolpisce i suoni.
I suoi film pullulano di citazioni filmiche, ri-metabolizzazioni di stilemi e modi della ripresa storici, rinvii intertestuali…la circolarità inesausta di un cinema che ritorna sul cinema…
Giustamente hai chiamato in causa «il cerchio», figura assunta dal corpo quando si ripiega su sé, figurazione del guardar-si, ma non della chiusura in sé. È un ripiegamento fàtico dell’ex-teriore che comunica con il proprio in-teriore e di interrogazione sul senso del proprio operato, un principio di curvatura speculare e meta scenica, che è sempre una forma di curiosità primigenia, analoga a quella che ci spinge a superare la difficoltà del reciproco approssimarsi, del com-prenderci. Tutto ciò entra nel mio cinema in maniera quasi incosciente, per anelito sperimentativo, io cerco di non essere presente in quello che faccio, di non interferire. Parto da una prima idea, una frase, una melodia, poi il resto viene seguendola, e sarà lei a non permettermi di mantenere la rotta che volevo. La direzione, per me, è quella del non fare, un metodo-discorso non diretto-volontario ma indiretto e libero.
Lei mostra spesso il set, le macchine da presa, i microfoni…auto riflessività metalinguistica o che altro?
La questione metalinguistica non mi appartiene, mi interessano però quelle immagini che normalmente vengono scartate nel montaggio di un prodotto industriale. Uso queste immagini «vietate», permetto alla circumscena, di invadere la scena. L’inquadratura è un rettangolo ritagliato dalla realtà e tutto ciò che vi sta dentro diventa immagine, allora basta un piccolo spostamento dell’obiettivo e ciò che era circumscena diventa scena. D’altronde non esiste campo senza un corrispondente fuoricampo, cioè, ciò che giustifica l’immagine sta sempre fuori dall’immagine stessa e ne fa parte per implicazione diretta. Creo equivalenza tra ciò che il cinema consacra come immagine e ciò che dissacra escludendolo, un dissacrato che sono andato a scovare perfino in un’opera dalla ineccepibile grammatica classica come Stagecoach, di Ford, in cui, per pochi fotogrammi compare l’ombra dell’equipe che filma. La mia piccola rivoluzione non è di ordine metalinguistico ma riguarda il mostrare tutto del film, non solo certe sue parti, e dunque anche i microfoni, le gelatine, il ciack ecc. la circumscena vietata del cinema industriale.
Mostrando l’apparato tecnologico riduce il grado di croyance spettatoriale, l’impressione di realtà. Non è uno «spettatore immedesimato» quello a cui pensa Bressane…
Non voglio sembrare arrogante ma io faccio i film solo per me. Il mio cinema è il modo che casualmente ho trovato per reagire alla mia personale patologia, per capire cose di me altrimenti incomprensibili, il mio stile dipende tutto dalla mio «autismo». Dopodiché i miei film sono comprensibili da chiunque, purché sia disposto a comprenderli. Il problema è che per lo più la gente vive sotto una vera e propria «tirannia bancaria», salariale, che sottrae il tempo, l’oziosità, l’irresponsabilità necessarie alla comprensione…anche se non mi sembra che l’accettazione di tutto ciò sia epidemica, né che sia una condizione destinata a durare per sempre…In questo momento il sistema cinema si trova in una sorta di quiescenza temporanea, in cui sta strutturando le modalità della sua sopravvivenza futura, che avverrà attraverso un rinnovamento del suo stile, dei suoi valori e con una forma rinnovata, che spero di non conoscere mai.
Spesso i suoi film non prevedono parti recitate, vocalizzate…mentre il senso sembra scaturire tutto da elementi formali…qualcosa sull’equilibrio instabile forma filmica-parola…
È sempre un lavoro traduttorio, intersemiotico e intrasemiotico. La plasticità dell’immagine, la luce, i movimenti della macchina e dei corpi sono gli strumenti per operare un passaggio di significato, attuano la dislocazione del significante verbale in significanti plastici, dalla parola all’immagine. La natura di questa operazione traduttoria è intuitiva, non risponde a una teoria precisa, come scriveva Roman Jakobson quando usava l’espressione «suggerire» il significato della parola attraverso l’immagine. Quella intersemiotica è una traduzione di suggestione, che non vuole avere la stessa precisione di quella letterale ed è al tempo stesso legata e slegata dal livello delle parole. Una traduzione che tollera diminuzioni e accrescimenti del significato: immagini che esprimono più di quanto non dicessero le parole e parole che figurativizzano più di quanto fosse nelle immagini. In più io faccio sempre un cinema «locale», cioè che intrattiene un rapporto esclusivo, con la lingua, con la cultura e i costumi propri del territorio «entro» cui e «contro» cui vivo. Sono un grande appassionato del Portoghese brasiliano, che ha come delle distorsioni rispetto a quello del Portogallo, il mio repertorio è tutta la letteratura portoghese, e questa scelta monoglotta ricade sull’immagine filmica perché ogni lingua «produce immagine», modalità di creare e capire le immagini, diverse per ognuna. Il concetto chiave è sempre quello di traduzione e tutte le forme plastiche (visive e sonore ndr) che ritrovi nei miei film altro non sono se non dislocazioni del significante verbale, modi per tradurre filmicamente la mia interpretazione della lingua verbale del Brasile. Su queste forme, così come sui testi, poi faccio un montaggio che non ricerca l’unificazione, ma esplicita la differenza diciamo…testi del diciassettesimo secolo con testi del ventesimo secolo. Ne consegue che la plastica dell’immagine che ottengo è una forma di straniamento, ha natura ibrida, che in quanto a stile usa elementi molto differenti. Come fonti mi servo di tutta la letteratura portoghese, il mio repertorio è tutta la lingua. La questione ha sempre e comunque natura traduttoria sia che si tratti di traduzione intrasemiotica, per esempio dall’Italiano al Francese, che intersemiotica come nel passaggio dal balletto al cinema.

LA RASSEGNA

«Registi Fuori Dagli Sche(r)mi» (Bari gennaio-marzo) è una rassegna cinematografica che per vocazione si colloca lontano dal centro. Sotto la lungimirante direzione artistica di Luigi Abiusi, infatti, e attraverso l’unione di forze operata tra Apulia Film Commission e Uzak da quattro anni a questa parte, offre in visione al pubblico pugliese, ma non solo, una interessantissima scrematura delle più cospicue opere e personalità registiche del circuito dei festival cinematografici nazionali, scelte tra quelle, cito Abiusi, «che vengono continuamente ai ferri corti con la vita e con il cinema». Quest’anno l’idea guida della kermesse è quella di mettere a confronto quattro grandi maestri (Bressane, Ferrara, Maresco, Vecchiali) con un paio di giovani leve dal talento indiscutibile (Timm Kröger e Héléna Klotz), con l’intento di dimostrare che il buon cinema non ha età anagrafica, che l’opera dei grandi sa essere vitale ed energica, quanto quella di un ventenne, mentre quella di certi giovani dimostra una consapevolezza formale, uno spessore da «adulti del cinema».
I registi accompagnano le opere in sala e si prestano a dibattiti con il pubblico, motivo di interesse ulteriore.
Sei gli appuntamenti: 23 gennaio: Julio Bressane con Educação Sentimental, 30 gennaio: Abel Ferrara con Pasolini, 6 febbraio: Timm Kröger con Zerrumpelt Herz, 20 febbraio: Franco Maresco con Belluscone, 27 febbraio: Paul Vecchiali con Nuits blanche sur la jetée, 6 marzo: Héléna Klotz con L’âge atomique.
Tutti al Cineporto di Bari…

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