Juliette Klinke, nel silenzio di un mare abissale
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Juliette Klinke, nel silenzio di un mare abissale

L'antologia Classici del cinema delle donne in una rielaborazione d'autore

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 4 giugno 2022

Un mantello di Millepelli di cinema di registe. Scaglie – girate tra il 1896 e il 1940 – evanescenti e lacerate o integre, ma sempre rilucenti e portatrici di una energia resa ancora più affilata dalla resistenza ai processi di cancellazione cui queste opere e le loro autrici sono state sottoposte.
A intessere un simile mantello, col filo della sua voce fuori campo, come presa di coscienza e responsabilità, è Juliette Klinke, filmmaker attiva tra Belgio e Svizzera.

Il suo film breve, Dans le silence d’une mère abyssale, comincia proprio dal mare della storia rimossa del cinema delle donne ed è sempre parte del Sicilia Queer, come Dear Barbara, Bette, Nina di Beatrice Gibson, omaggio della regista «anglo-palermitana», a Loden, Gordon e Menkes.

Tornando al doc di Klinke – come lei racconta – tutto muove da Cannes 2007. Allora ha sedici anni e scopre che tra gli autori dei 35 corti commissionati per celebrare il sessantenario c’è solo una regista, Campion. È la prima faglia in una matrix percettiva che ritroverà alla scuola di cinema: lì si accorgerà che non ha modelli di cineaste su cui costruire la sua genealogia. Che non si è mai chiesta «chi determini cosa vale la pena di ricordare».

Quando una giovane filmmaker infrange il «velo di Maya» di una storia del cinema a lungo scritta solo da «vittoriosi uomini bianchi» e questo accade grazie a sue ricerche personali e non perché la vulgata nelle scuole sia stata modificata, è qualcosa di triste ma insieme è un nuovo inizio, un’altra autrice che si prende carico della memoria misconosciuta delle pioniere.
Sappiamo però che non bastano brillante footage ritrovato e voice over per sfornare un documentario di valore. Ci vuole visione, ci vuole un’impronta del sentire. Che nel caso di Klinke è fatta della sua maturazione e della grazia con cui scopre le numerosissime donne del cinema tra fine ‘800 e primi del ‘900, quello della più pura sperimentazione.

Da un frammento all’altro del mantello si rispondono allora Alice Guy Blaché di Les Résultats du Féminisme, Mabel Normand, artista della commedia e regista del primo lungometraggio con Chaplin, La Coquille et le Clergyman di Germaine Dulac o il surrealismo cinematografico ante litteram, le silhouette nere dei muezzin sugli sfondi bluette di Lotte Reiniger, Drusilla Dunjee Houston e il suo film mai realizzato di opposizione al razzismo in Nascita di una nazione. E Dorothy Azner, Lois Weber, Haydée Chikly, Elvira Coda Notari… Con le antologie il punto è lavorare a sufficienza sulle individualità (due buoni esempi sono Registe di Diana Dell’Erba e Non solo dive, volume a cura di Monica Dall’Asta). Klinke nota quindi la ricca partecipazione delle donne a tutti i mestieri e come tendessero a trattare il rimosso della lotta di classe, dello stupro, dell’aborto. Questo finché negli anni ‘30 l’industrializzazione e un modello patriarcale di società trasfuso al cinema non cominciarono a espungerle. Pure, i loro nomi ritornano sussurrati nei magnifici titoli di coda. Dance, Girl, Dance. Persino i lampadari di cristallo danzano. Mentre lo strascico di quel mantello continua ad allungarsi.

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