Il suo sorriso è l’incanto della sala. Da lontano, in platea, all’ennesima premiazione o all’anteprima di turno, non c’è luce più bella e serena della sua bocca felice. Il suo riso luminoso spezza la notte. Da vicino, negli incontri che seguono (come al Thé ou Café tv, al Festival di Cabourg), quegli zampilli gioiosi si piegano a un’opacità piovosa d’abituale malinconia, che vela occhi e labbra fino a un attimo fa incandescenti  : con l’interruzione infantile – altalena tra cigno adulto e brutto anatroccolo – di risate sgraziate («  che i registi, a partire da Bruno Dumont, detestano  », si diverte a ribadire su una bella pagina del Guardian). Da lontano, la Binoche ha accompagnato, all’affollatissima Cinémathèque Française, la nuova escursione estremorientale, il mistico-forestale Vision (‘Voyage à Yoshino’) di Naomi Kawase, prodotto da Marianne Slot, l’intraprendente ‘complice’ dei film di Lars Von Trier. Da vicino, Juliette è stata protagonista d’uno degli incontri più calorosi, pur se filtrati dal suo inglese internazionale, ai RDV di Unifrance, dove ha promosso Un beau soleil intérieur di Claire Denis, banalizzato in Italia in L’amore secondo Isabelle. Ora è attesa, da lontano e da vicino, alla Mostra di Venezia, dove, già Coppa Volpi per Film Blu nel ‘93, è protagonista, con Guillaume Canet e Vincent Macaigne, di Non Fiction (Doubles vies), su un editore in lotta con la rivoluzione digitale, seconda volta (dopo Sils Maria, con Kristen Stewart) di Juliette con Olivier Assayas, reduce dal successo di Personal Shopper, con la sola Kristen Stewart.

Da vicino, Juliette, giacchina jeans su camicetta scintillante di seta rossa, pantaloni neri, orecchini danzanti, volto color luna, niente trucco, 54 anni lo scorso 9 marzo, oggi probabile busta paga più alta – a parte Depardieu – della Francia cinematografica, si fa vedere anche in metropolitana, quando raggiunge i suoi set, con i passeggeri intorno che si chiedono  : È lei, non è lei  ?

È lei  ?

Oui, je suis moi  ! (segue una delle sue risate).

Lei sorride spesso  : ma con espressione subito melanconica. È felice?

Felice di vivere. Ma felice tout court … non lo so: nel fondo, sì, ma affermarlo chiede una leggerezza che non ho. La vita è una prova continua, una trasformazione nella prova  : sentimenti, sensazioni. Son passata anche attraverso momenti di depressione. Con la tentazione talora di girar la pagina, una volta per tutte.

Quando  ?

C’è stato un periodo di progetti annullati uno dopo l’altro. Che angoscia  : come se qualcuno continuasse a tenermi la testa sott’acqua. C’è mancato poco, allora, che la finissi con il cinema.

Fortunatamente no. Quasi 70 film e serie tv in 35 anni, da Je vous salue, Marie di Jean-Luc Godard all’imminente La maison vide di Patrice Leconte.

E nel frattempo ho continuato a dipingere  : ho un bell’album di ritratti dei miei registi con poesie su di loro. Non mi sono risparmiata  : militanza politica, per libertà di stampa e dell’arte, e anche tanto teatro, dall’Antigone di Sofocle, a Londra e New York, al canto e alle slapstick. E dieci anni fa, per i miei 44 anni, una performance di danza, coreografo Akram Khan, al National Theatre di Londra.

Qual è la molla che la spinge, attrice, alla pittura o alla danza  ? L’horror vacui  ?

No, sono per natura super-curiosa. Confrontarmi a differenti universi mi permette di esplorare zone di me a me ignote. Mi interessa l’‘umano’  : come se dentro di me ci fosse una cinepresa, un occhio dilatato. È una sete di vivere, da sempre  : m’appassiona scoprire gli altri e, attraverso gli altri, una parte di me. Non facciamo che contrarci, imporci limiti. A 14 anni mi son trovata davanti a un dilemma  : amavo la pittura ma anche il teatro. Devo scegliere, mi son detta. Mia madre espose il problema a un’amica pittrice  : che mi scrisse, formato-manifesto, ‘Juliette, scegli tutto!’. È ancora scolpito qui, in testa.

Tra i 20 e i 30 anni è stata Musa di quasi ogni regista importante (tanto che il Biographical Dictionary of Film s’era chiesto : ‘È la più bella del cine-reame ?’). Si sente oggi più libera, senza più funzioni, subordinate, d’ispiratrice ?

È stata gioia piena per me quel tipo di rapporto  : il lavoro cinematografico è condivisione, il piacere di fare insieme. Inoltre, quel che appare importante quando hai 20 anni non è fortunatamente più così quando ne hai 50. A meno che tu non sia cresciuta.

Quattro, ora cinque, i rapporti sentimentali di qualche durata, da cui sono nati Raphaël e Hana, oggi di 24 e 18 anni. Che cosa le han dato gli uomini?

La loro fragilità. Ci aspettiamo tanto da un uomo, protezione, forza … Non sono doti che arrivano subito in un uomo  : ci vuole tempo. Che delusione scoprirne la friabilità, quando sei stata, è il mio caso, una bambina che divorava le favole di principi e principesse. Che colpo, precipitare da tutte quelle nuvole.

Mai sposata, a dispetto di quattro domande, rimaste inevase. Jeanne Moreau diceva che gli attori devono ‘essere innamorati dell’amore’. È il suo caso?

Un bel sorriso: Ho parlato più volte con Jeanne. Una volta, a proposito dell’amore, mi ha detto  : ‘Sai, io non ho mai detto no all’erba verde’. Magnifico, vero  ? Ma io non son fatta per niente così. Spesso ho detto no all’erba verde. È stata la mia salvezza. E poi, sa  ? Non credo che la coppia sia una soluzione definitiva nell’amore  : c’è sempre da lavorare, ogni giorno, ogni istante. I sentimenti sedimentano alla svelta.

Quando, a 4 anni, i suoi genitori si sono separati, è cresciuta in collegio. Traumatico  ?

Da bambini non si è consapevoli. Si accetta tutto come fosse naturale. In collegio, avevo trovato quasi subito il mio spazio vitale nel campo giochi  : dove passavo ore a inventare storie, azioni, avventure. È lì che sono diventata attrice. Crescendo, in un certo senso, ‘insieme’ ai miei genitori, entrambi animali dello spettacolo : mia madre, d’origine polacca, attrice e insegnante di recitazione, mio padre, d’origine marocchina, mimo, regista e scultore (le maschere in resina per il teatro in Sud America). Mi arrabbio quando mi prendono come archetipo della donna parigina. Non mi vedo affatto come ‘Frenchy-French’  ! E non mi piacciono le catalogazioni.

Ha iniziato a recitare per avere anche l’approvazione dei suoi genitori  ?

Sì, un po’ per farli sentire fieri di me. Ho sempre cercato l’approvazione sia di mia madre che di mio padre. Ma arriva poi il momento che smetti di cercarla  : un bisogno che non hai più.

E ha mai girato un film per far piacere ai suoi figli  ?

Ride  : Ah, sì, un paio di volte. L’anno scorso, un kolossal, Ghost in the Shell, tratto da un manga (io che non ho mai letto un manga in vita mia) e, 4 anni fa, Godzilla, soprattutto per accontentare Raphaël, con cui, quand’era bambino, mi divertivo a guardare in tv i vecchi Godzilla.

Una volta, sul set, ha rischiato di affogare.

E da allora, morire affogata è il mio peggior terrore. È successo durante le riprese infinite di Les Amants du Pont Neuf di Leos Carax, mio compagno del momento. Tre anni  di ciak ! Per Leos, quel film è stato anche una tormentata autobiografia. Il finale che aveva in mente prevedeva che io morissi  : e lui, dal ponte, a chiedersi ‘Mi ha mai amato?’. Previsione divenuta quasi terribile realtà quando ho rischiato di annegare nella Senna. Sott’acqua, la mia catarsi. Mentre tornavo a galla, ho sottoscritto un intimo contratto: ‘Da oggi, sceglierò la vita, non importa quale’. La vita che allora ho intravisto era un progredire, un muoversi attraverso tutto, essere aperta al cambiamento e alla conoscenza del nuovo. La vita è amare … Ho rotto con Leos quando ho letto il suo finale. L’aveva poi cambiato, per me, in un quasi-happy end. Ma troppo tardi.

Anche Gérard Depardieu, con lei nel film della Denis, aveva voluto ‘affondarla’ agli esordi.

Sì, m’aveva definito, con sprezzo, ‘il nulla’, ‘attrice che non ha nulla’. Per me, era stato uno choc. Poi ci siamo incontrati per caso al mercato  : ha chiesto scusa e mi ha abbracciato. Le sue provocazioni sono continue, lo sappiamo. Una volta, mi ha detto  : ‘Sono un mostro, ma sai quant’è faticoso fare il mostro ogni giorno  ?’.

 

 JULIETTE IN ITALIA 

IL NO A NANNI

«  Alzi la cornetta e succede, talvolta, il miracolo  : ti cerca Bruno Dumont, con cui ho girato, 5 anni fa, Camille Claudel 1915 e poi, 2 anni fa, Ma Loute  ». Il cinema, continua Juliette Binoche, «  è un cammino fatto di grandi sofferenze e grandi gioie  : le grandi gioie sono gli incontri con i registi, da Téchiné a Kieslowski, a Carax, Haneke, Boorman, Minghella, Cronenberg, Leconte, Assayas…  ». I miracoli della Binoche sono a ripetizione. Ce ne sono anche due italiani. E un terzo, svanito. In Toscana, l’attrice francese ha girato nel 2010 il suo unico film con Abbas Kiarostami, Copia conforme, che le è valso il premio d’interpretazione a Cannes, e in Sicilia, 5 anni dopo, L’attesa di Piero Messina, in concorso a Venezia  : «  Quando ho risposto che avevo già recitato in Italia, il regista mi ha subito redarguito  : ma la Sicilia non è Italia  ! La Sicilia è la Sicilia  ! Per me è stata una nuova scoperta, il piacere di immergermi a fondo nel vostro Paese  : di cui amo la lingua, il cibo, il calore, le persone, le stagioni, la sensualità che circola dappertutto, l’incrocio impressionante di diverse civiltà, in ogni regione, in ogni città, ogni borgo. Durante le riprese ho letto Il Gattopardo, ho rivisto il film di Visconti…insomma, mi sono impregnata di Sicilia  !  ». All’Italia di Juliette, manca però un tassello  : La stanza del figlio. Nel 2000, Nanni Moretti le propone il ruolo della madre, poi assegnato a Laura Morante, ma lei rifiuta  : personaggio troppo vicino a quello da lei interpretato in Film Blu di Kieslowski. Nel settembre dell’anno scorso, Juliette sarà, in proposito, più esplicita  : «  Non siamo entrati in sintonia, Nanni Moretti e io. Abbiamo pranzato insieme  : e l’ho sentito impaziente, poco disposto a ascoltarmi. Ci fosse stato un vero incontro, avrei accettato ». (m.ser.)