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Juliet Escoria, contrappunto in forma di lettere: a se stessa, «vittima del proprio cervello»

Juliet Escoria, contrappunto in forma di lettere: a se stessa, «vittima del proprio cervello»Sidney Nolan, «First-class marksman», 1946

Narrativa australiana Juliet Escoria, «La squilibrata», da Pidgin

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 8 novembre 2020

Era l’inizio della primavera del 1994 quando Kurt Cobain si suicidò con un colpo di fucile, Internet non aveva ancora preso il sopravvento sulle nostre vite, le lettere si scrivevano a mano, le canzoni rabbiose e nichiliste si ascoltavano in solitudine, e l’eroina aveva perso lo scettro ma conservava la sua aura sinistramente fascinosa. All’inizio di quella stessa primavera, Juliet – voce narrante scelta da Juliet Escoria per il suo romanzo La squilibrata (traduzione di Stefano Pirone, Pidgin edizioni, pp. 404, € 16,00) comincia ad avvertire qualcosa di oscuro e maligno che le invade il corpo.

Siamo a Santa Bonita, California del Sud. Juliet è un’adolescente talentuosa che si nutre di poesia, ma come la maggior parte dei suoi coetanei sente «un vuoto di oscurità e malessere». Comincia a infierire sul suo corpo – si taglia, si droga –, passa notti insonni, combatte contro le allucinazioni.
In una lettera confida ai genitori che non riesce a sbarazzarsi del pensiero della morte e questi, disorientati, la fanno visitare da specialisti, che – nell’America ipermedicalizzata – la dichiarano subito bipolare. Il senso di disgregazione accelera le sue fantasie suicide, che si concretizzano in alcuni tentativi e conseguenti ricoveri in istituti psichiatrici, dove incontra ragazzi come lei – pelle cerea, facce gonfie, umore instabile – giovani smarriti le cui personalità vengono smantellate e ammansite da medici indifferenti e interscambiabili.

Juliet la squilibrata, io narrante ma anche alter ego dell’autrice, si sintonizza con Esther Greenwood della Campana di vetro di Sylvia Plath: stessa impossibilità, per queste ragazze interrotte, di comprendersi e definirsi, esprimere sé stesse in una famiglia e una società incapaci di accettare ciò che non è inquadrabile come decoroso e ordinario. A differenza di Plath, però, Escoria entra nel racconto attraverso le «lettere dal futuro» indirizzate alla Juliet «vittima del proprio cervello».

Nel futuro ha trentadue anni, è sposata, vive nel West Virginia, e le pupille che proiettavano «dannazione o nerezza o perfino vacuità» ora suggeriscono solo qualcosa di triste. È proprio nei due piani narrativi e nelle tonalità delle voci – pulsante e viscerale da ragazza, lucida e malinconica da adulta – che il romanzo mostra la sua singolarità; a ciò si aggiungono un immaginario e uno stile che virano dai colori acidi della mente al bianco spettrale delle istituzioni, dall’intensità dell’autoanalisi alla cruda registrazione di diagnosi e trattamenti, da una lingua esuberante e vivida a una più piatta, clinica, la lingua della spersonalizzazione.

Composto da brevi capitoli arricchiti da documenti autentici, Instagram story ante litteram (lettere scritte a mano, biglietti di auguri di pronta guarigione, valutazioni dei pazienti, foto, disegni), La squilibrata appartiene al territorio del romanzo di formazione dove la malattia è un rito di passaggio e la guarigione una ricucitura della personalità andata in pezzi. Tanto che Juliet, riecheggiando Lady Lazarus, può dire: «Ero tornata dal mondo dei morti ormai due volte, ero un miracolo».

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