Figura di riferimento del panorama cinematografico musicale contemporaneo – dalla fine degli anni Settanta quando esordì realizzando i primi lavori sui e con i Sex Pistols, band ricorrente in una filmografia densa di videoclip, documentari e incursioni nella finzione come nel caso di Absolute Beginners, opera culto degli anni Ottanta con David Bowie -, Julien Temple sarà oggi a Torino ospite del festival SeeYouSound che gli consegna il premio alla carriera dedicandogli un’intera giornata con la proiezione di quattro lavori girati per la Bbc (tre dei quali riservati ai Clash, agli immancabili Sex Pistols, a Keith Richards) in un ampio arco temporale. Di quell’esperienza, di una filmografia composta di quasi duecento titoli, della passione per il cinema, dell’attualità abbiamo parlato con il regista londinese giunto ieri nel capoluogo piemontese.

Il quarto lavoro targato Bbc che sarà presentato al festival si chiama «It’s All True», titolo che echeggia il film incompiuto di Orson Welles.

Lo feci tanto tempo fa, all’inizio degli anni Ottanta, per Bbc Arena, un programma di documentari d’arte, e mostra una delle ultime apparizioni di Orson Welles che introduce e conclude il film. Fu un esperimento significativo perché venne realizzato agli albori dell’età del video, per la prima volta le persone avevano registratori e videocamere, stava accadendo un cambiamento. Parlerei di una visione premonitrice di quanto si sarebbe verificato in seguito.

La redazione consiglia:
Shane MacGowan, il sorriso spezzatoIn tutto il suo cinema c’è la sensazione di essere di fronte a qualcosa di «alieno». Lei tratta i personaggi, reali o di finzione, come se fossero degli «alieni» sulla Terra.

È un’osservazione interessante. Mi affascinano gli esseri intelligenti e gli esseri umani sono degli strani tipi di animali, sono degli animali super intelligenti e sono attratto da chi ha un approccio originale alla vita attraverso la creatività. Veniamo tutti dalle stelle, siamo tutti pezzi dell’universo, mi piace la teoria secondo la quale siamo tutti alieni, alcuni più di altri.

Cosa significa vivere e lavorare oggi nel Regno Unito dopo la Brexit e con un razzismo e un’intolleranza così diffusi?

Johnny Rotten nel documentario «Never Mind the Baubles – A Christmas with Sex Pistols», foto Bbc

Siamo tutti molto arrabbiati per via della Brexit perché quella decisione non ha portato un vero vantaggio per nessuno. Il Paese è al collasso, in una condizione terribile, sta cadendo a pezzi, tutto è rallentato. La Brexit ha significato tornare al passato in maniera reazionaria perché si esalta la cultura del singolo mentre io voglio celebrare ogni tipo di cultura. Non passerà molto tempo e gli inglesi torneranno a manifestare, a bussare alla porta delle istituzioni per la delusione causata dalla Brexit.

E a proposito della tragedia in corso in Palestina?

Nel Regno unito non è permesso dire ciò che davvero si pensa per non essere tacciati di antisemitismo. Io do il mio profondo supporto agli ebrei in Israele che vivono in un regime di apartheid e di razzismo, che sono contro il genocidio e contro lo spargimento di sangue, che sono contro Biden che fornisce le armi a Israele, armi che servono per uccidere i bambini di Gaza. Il presidente degli Stati uniti dovrebbe fermare il genocidio, dire «basta alle armi, non ve ne diamo più».

Lei è un cinefilo. Nella «carta bianca» che il Torino Film Festival le diede nel 2015 inserì film di Sergeij Parajanov, Michael Powell e Emeric Pressburger, Ingmar Bergman. E nel 1998 ha fatto un film su Jean Vigo intitolato semplicemente «Vigo». Come è nato il suo amore per il cinema?

È qualcosa di curioso. Quando ero ragazzo non vedevo molti film, ne avrò visti due o tre prima di andare al college dove ho studiato architettura. A quei tempi frequentavo un cineclub universitario e così ho iniziato a vedere film in 16mm. Ci ritrovavamo sul tetto e proiettavamo le pellicole usando un lenzuolo come schermo. Il mio interesse vero per il cinema si è manifestato però quando ho scoperto i film del regista francese anarchico Jean Vigo. Il mio è stato quindi un modo alternativo e fuori dagli schemi di avvicinarmi ai film e ai registi.

Fare documentari le dà maggiore libertà rispetto a girare film di finzione?

Sì, ma è più che altro una questione di denaro. Quando hai meno soldi hai meno paranoia. Se facessi un film di finzione avrei bisogno di un centinaio di persone, mentre con il documentario ne bastano venti ed è più facile muoversi, più veloce e puoi cambiare idea, cercare soluzioni che non avevi immaginato, che non avevi inserito in precedenza. Inoltre, puoi avere un controllo maggiore.

Cosa rappresentò per lei e per tanti altri autori l’esperienza con Mtv nel realizzare video musicali?

All’inizio c’era una grande libertà, non esisteva un format da seguire. Gli artisti, le band, tutti avevano molta libertà. Avevi la libertà di sperimentare davvero, nel senso di mettere in atto un processo creativo multiforme. E c’era la velocità. Avevi un’idea, la concretizzavi e dopo due settimane quel prodotto stava facendo il giro del mondo. Un incredibile accesso istantaneo aveva luogo. Una cosa rivoluzionaria per dei giovani filmmakers. Ed era un prodotto che poteva essere visto e rivisto all’infinito.

Il suo prossimo progetto si chiama «Sexual Healing» e al centro ha la figura di Marvin Gaye. Cosa ci può anticipare?

Ma non è vero… Circa dieci anni fa avevo dedicato del tempo a quel progetto e girato per cinque settimane. L’idea era fare una biografia di finzione di Gaye, ma la lavorazione si interruppe perché finirono i soldi. Ho invece appena terminato un documentario su Johnny Pigozzi, nessuno lo conosce, ma lui conosce tutti ed è un personaggio veramente interessante, di famiglia torinese che emigrò in Francia, dove il padre si fece un nome nell’industria automobilistica. Johnny ha una personalità poliedrica: collezionista d’arte, fotografo, fashion designer, e anch’egli nel mondo dell’automobile. Il film dovrebbe chiamarsi I Am Curious, Johnny, ma ci stiamo ancora lavorando, non è definitivo, potrebbe cambiare.