Difficile non leggere un album del genere come un romanzo di formazione per riconciliarsi con il proprio passato. Basta uno sguardo alla copertina. Julian ritratto in bianco e nero a dieci anni, confuso più che felice, nei giorni in cui riabbraccia suo padre grazie alla ragazza dietro la fotocamera, May Pang, compagna del celebre lost weekend lennoniano. Cinque anni prima, dopo la separazione dei suoi, aveva ricevuto le cure di un Paul McCartney pronto a dedicargli affetto e versi: «Hey Jules, don’t make it bad». È sua, la calligrafia del titolo.
«È la fine di un capitolo della mia vita, perciò l’ho chiamato Jude», dichiara il 59enne primogenito di John Lennon. Sorridente e amabile, parla di equilibrio e di un tempo andato con cui ha fatto pace anche dal punto di vista musicale.
«Ero convinto che Everything Changes sarebbe stato il mio ultimo album. Volevo dedicarmi ad altro, fotografia, beneficenza… Poi quando il mio manager è andato in pensione mi ha mandato tutti questi scatoloni che aveva in cantina: per lo più erano documenti, ma alcuni pacchi contenevano nastri di ogni formato degli ultimi quarant’anni, a partire dalla prima demo di Too Late For Goodbyes [da Valotte, 1984]».

Julian Lennon
Le immagini esprimono le stesse domande delle canzoni: chi sono, qual è il mio scopo, in cosa credo, sono felice o depresso, come troverò equilibrio in questo mondo?Da quegli archivi inattesi sono riemerse decine di canzoni inedite, assieme alle sensazioni che ne avevano sancito la nascita. «Abbiamo trasferito tutto in digitale per ascoltarli meglio. La prima canzone che ho messo su è stata Every Little Moment: ha più di trent’anni – mi sono detto – ma sembra incisa ieri!».

DI NASTRO in nastro, il medesimo stupore ha accolto gli altri brani dimenticati, finché Lennon ha iniziato a metterci mano, quasi per gioco, senza progetti: «Innanzitutto eliminando la drum machine da tutte le canzoni, per inserire una vera batteria. La traccia successiva, registrata in un bungalow a Mulholland, era Not One Night, a cui ho lavorato assieme a Justin Clayton, mio amico d’infanzia e collaboratore», quest’ultimo è stato però costretto dalla pandemia a rientrare in Inghilterra, lasciando Julian solo con i suoi reperti. «A quel punto, era il momento di capire se fossi ancora in grado di lavorare al mixer. La prima canzone che ho prodotto da solo è stata Freedom: mi sono letteralmente reinnamorato dello studio e del suo soundscape. Da lì, con l’aiuto di Spike Stent, siamo riusciti a mettere assieme queste vecchie canzoni e farle suonare come un vero album. Ci sono voluti quasi tre anni».
Ride, descrivendo una specie di Frankenstein nato da una chirurgia sonora in bilico tra analogico e digitale, proprio come accade per la sua seconda attività artistica: «Quando ho iniziato a dedicarmi alla fotografia la mia sfida è stata rendere il digitale simile all’analogico. Durante una mia mostra ad Amsterdam, una nota critica d’arte venne da me e mi chiese: “Queste foto sono in digitale o su pellicola?” “Me lo dica lei!”, risposi».
Non a caso, la sensibilità visuale di Lennon si traduce in arrangiamenti che ricordano da vicino il linguaggio della musica da film: «Audio e video hanno sempre avuto una forte connessione per me. Anche per l’album precedente avevo realizzato foto e video per ogni brano. Le immagini esprimono gli stessi temi di fondo delle canzoni, le stesse domande: chi sono, qual è il mio scopo, in cosa credo, sono felice o depresso, come troverò equilibrio in questo mondo?».

NEL RITROVATO Frankenstein lennoniano ogni parte del corpo sembra convergere verso un’organicità che non si limita all’espressione musicale, ma pervade i tanti campi del suo agire. Nominato ambasciatore per il World College Radio Day del 7 ottobre, Julian continua a promuovere l’attività umanitaria e ambientalista della sua White Feather Foundation, cui finisce per accordarsi anche l’idea di un ritorno dal vivo: «Se lo facciamo dovrà essere nel modo che sto immaginando. Deve essere arte, e legarsi agli scopi della Fondazione. Uno dei miei concerti più belli fu assieme alla Philharmonic Orchestra di Hong Kong, quando uscì Photograph Smile. È in questi momenti che mi viene la pelle d’oca, e vorrei fosse così anche per un prossimo tour: vorrei magia e visualità, ma non semplici trucchi, ma uno scopo più grande».
Si dice fortunato, Julian Lennon alias Jude, come i Lucky Ones cantati nel suo album. «Tutti noi dovremmo ritenerci tali, e rispettare quello che abbiamo in noi stessi e nel nostro pianeta». L’ultima frase, pronunciata con una voce così simile a quella paterna, dà i brividi: «Immagina quello che potremmo fare tutti insieme».