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Julian Hetzel e Ntando Cele nello specchio della diversità

Julian Hetzel e Ntando Cele nello specchio della diversitàNtando Cele in «SPAfrica» foto di Anouk Maupu

Intervista Il regista teatrale tedesco e la performer sudafricana Ntando Cele hanno dato vita a uno spettacolo urticante: «SPAfrica»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 22 luglio 2023

«È come se avessimo toccato un punto nevralgico» afferma il regista teatrale tedesco Julian Hetzel quando lo incontriamo insieme alla performer sudafricana Ntando Cele. I due hanno dato vita a uno spettacolo urticante, SPAfrica, andato in scena sia a Santarcangelo che a Kilowatt in spirito di collaborazione tra i due festival.

Un’ironia feroce pervade il lavoro, che prende le mosse dall’invenzione di una bevanda costituita da «lacrime di occidentale», distribuita sotto forma di pioggia in Africa dove, in cambio, gli europei estraggono acqua. Il meccanismo viene spiegato in una finta conferenza dove i ruoli dei due artisti si confondono, per poi delineare in maniera estrema e persino caricaturale le loro (e le nostre) posizioni, legate ai background, alle provenienze e allo status.

Cosa cerchiamo in uno spettacolo oggi? Di cosa sono affamati i festival, gli intervistatori, gli spettatori? Sono domande che Hetzel e Cele portano fino alle estreme, e talvolta spiacevoli, conseguenze, con un congegno scenico in cui il video e la musica fanno parte integrante della drammaturgia.

«Il trauma è il nuovo oro delle arti» recita la descrizione di «SPAfrica». Cosa significa?

Ntando Cele: Forse lo è sempre stato, ma solo ora lo esprimiamo in maniera esplicita a parole. Per quello che posso comprendere siamo molto attratti dal trauma e dal dolore. Vedere qualcuno torturarsi sul palco ci fa sentire vivi.

Julian Hetzel: Il modo in cui la sofferenza viene esposta in scena è per certi versi simile a come funzionano i media: più c’è qualcosa di atroce, più vogliamo vederlo da vicino. Oggi è come se ci fosse un feticismo della diversità. Abbiamo messo in luce ciò che si crea intorno all’idea di dover dare spazio alle voci che fino a ora non abbiamo ascoltato. La domanda è se tutto ciò aiuti effettivamente la causa, se promuova un cambiamento reale o se sia solo un altro «asset» da mettere in vendita sul mercato. Sappiamo cosa accade nel Mediterraneo, ad esempio, ma spesso lo guardiamo sui nostri schermi, da una posizione decisamente comoda. Il punto è capire quale sia il nostro ruolo in quanto consumatori culturali: perché ci piace trovarci in questa posizione in cui veniamo intrattenuti dal dolore degli altri? Nella collaborazione tra me e Ntando partiamo naturalmente da due prospettive diverse, perché il suo profilo, la sua identità la rendono una «vittima arrabbiata». Ma per esserlo deve fare violenza al suo corpo, rimettendo in scena il trauma ancora e ancora. In questo lavoro è come se io fossi invece «dall’altra parte», incarno la posizione dell’occidentale come uno specchio, tentando di rendere il pubblico consapevole dei propri privilegi. Il nostro scopo non è quello di far passare del tempo piacevole allo spettatore, che poi esce e pensa a tutt’altro. Vogliamo vedere quanto si può andare lontano, quanto estremo può essere il teatro, quanto radicale, affinché non si tratti solo di intrattenimento.

Cos’è quindi che rende possibile il passaggio dall’empatia all’azione?

N.C.: Credo che il problema nel mondo delle arti è che abbiamo spesso a che fare con due atteggiamenti che sono agli estremi opposti. Da una parte persone super empatiche, così tanto dal sentirsi paralizzate nell’azione perché vogliono agire così bene, secondo dei dettami precisi, che alla fine non è possibile fare nulla. Dall’altro lato c’è l’opposto, ovvero gente a cui non interessa nulla della diversità e di tutti questi argomenti. Questo rende il passaggio all’azione molto complicato.

J.H.: Passare insieme 90 minuti, senza poter «premere pausa», credo generi una grande attenzione. Motivo per cui ritengo che le arti performative abbiano un accesso privilegiato alle emozioni, ai cuori, ai corpi e delle persone. Per me è importante usare il nostro privilegio, la posizione in cui siamo che ci permette di produrre spettacoli, essere invitati ai festival, essere visti e così via, per portare avanti delle idee a cui teniamo.

Uno dei vostri scopi sembra anche essere quello di strappare il velo di una certa ipocrisia.

N.C.: Naturalmente se uno spettacolo va in scena nei festival europei, rimane all’interno di un circuito particolare. Era chiaro quindi che stessimo parlando a persone con cui potremmo avere idee simili a un livello superficiale, tutti saremmo probabilmente d’accordo sul fatto che sono necessari dei cambiamenti, che abbiamo bisogno della diversità, che la plastica va ridotta eccetera. Bisognava quindi aggiungere qualcosa in più.

J.H.: I contesti che attraversiamo sono pieni di contraddizioni o, meglio, di «dissonanze cognitive». Il capitalismo ha bisogno del razzismo per esistere, sono costruiti l’uno sull’altro. Se vogliamo cambiare qualcosa, bisognerà prima di tutto modificare il sistema economico. Mentre le persone, e includo qui anche i festival con una forte sensibilità verso la diversità eccetera, sembrano a volte dimenticare che la struttura sottostante è ancora perfettamente intatta.

Cele lo scorso anno ha portato a Santarcangelo una sua performance, «Go Go Othello», sulla rappresentazione dei corpi neri nel mondo dell’opera. C’è una continuità nella collaborazione con Hetzel?

N.C.: Credo che questo progetto in coppia mi permetta di dire cose non riuscirei a esprimere da sola. Non riuscirei a «sputare nel piatto in cui mangio» in modo così deciso, ma Julian si muove in un altro modo nel mondo rispetto a me, per lui è più facile «aggredire» il pubblico. Mi hanno chiesto spesso come affrontiamo tra noi la questione della razza da un punto di vista creativo. Ne abbiamo parlato molto: su come ci sentiamo, quali sono i nostri ruoli, come viviamo la questione della diversità. È stato anche brutale, lo è tuttora, e le prove dello spettacolo non sono state certo una passeggiata. Spero che tutto questo serva anche ad incoraggiare persone che non hanno avuto opportunità, mostrare loro che è possibile scegliere strade diverse, osare in ciò che si dice e in ciò che si fa, anche correndo dei rischi.

J.H.: Un grande elemento che rende possibile la nostra collaborazione è lo humor. Questa sensibilità che entrambi abbiamo ci ha aiutato ad affrontare le questioni più difficili. Parlando con altri artisti e attivisti, a volte non si riesce veramente a respirare per quanto è tutto troppo serio. Credo che è parte di ciò che manca alla sinistra oggi, spero veramente che lo humour tornerà nelle lotte perché quello è il modo in cui si toccano le persone.

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