In una fredda giornata di febbraio 1983, davanti all’edificio di Cooper Union, un venditore espone la sua mercanzia sul marciapiede. Sembra un musicista jazz con cappello e sciarpa; la barba leggermente imbiancata. Su un piccolo tappeto a strisce colorate, in mezzo ad altri ambulanti con le loro cianfrusaglie, sono disposte in ordine meticoloso tante palle di neve, dalle più grandi alle più piccole. Certamente Street Vendor Selling Snowballs (il titolo di quest’opera) è tra i lavori più geniali di David Hammons (Springfield, Illinois 1943), tra i più influenti artisti contemporanei. Hammons è un acuto sovvertitore di simboli con cui esprime dissenso, utilizzando il proprio corpo o trasformando oggetti del quotidiano in «allegorie dell’esperienza dell’outsider nel mondo contemporaneo, sia esso un artista, uno sconosciuto, un pazzo, o più ostinatamente, una persona di colore», come si legge nel website del MoMa. Con i disegni animati dell’artista e le palle di neve, realizzati da Tynehsa Foreman (al posto delle immagini a colori e in bianco e nero con cui a suo tempo il fotografo Dawoud Bey documentò la performance), inizia il documentario The Melt Goes on Forever: The Art & Times of David Hammons (2022).

Il film prodotto e diretto da Judd Tully (Rosie Filmwaze LLC) con Harold Crooks (la colonna sonora è del compositore Ramachandra Borcar) sarà presentato anche in Italia, prima il 28 ottobre al Teatro Piccolo Arsenale nell’ambito del programma interdisciplinare del Padiglione ucraino alla 59/a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia e poi a Firenze alla 15/a edizione del Festival di cinema e arte contemporanea «Lo schermo dell’Arte» (16-20 novembre 2022) dopo la première allo Sheffield Doc Fest 2022. A parlare di questa sfida, considerando la nota reticenza di David Hammons ad apparire sulla scena artistica – non rilascia interviste ed è quanto mai evasivo con galleristi, curatori, collezionisti e dealer – è Judd Tully (nato a Chicago, vive e lavora a New York), giornalista e critico d’arte. «C’è voluto molto tempo per la realizzazione di The Melt Goes on Forever: The Art & Times of David Hammons, soprattutto per entrare nel cerchio protettivo di Hammons». – spiega Tully. Attraverso le sue conoscenze nel mondo dell’arte sono riusciti a coinvolgere molte persone, tra cui gli artisti Betye Irene Saar, Lorna Simpson, Henry Taylor, Fred Wilson, il critico Robert Storr, gli storici dell’arte Kellie Jones, Robert Farris Thompson, la gallerista Dominique Lévy e Papo Colo, co-fondatore di Exit Art. Ma, soprattutto, è stato decisivo l’incontro con Steve Cannon. «Nel film non c’è la mia voce, ma ero io a porre loro le domande. Il maggior contributo di Harold, invece, è stato quello di andare dritto in profondità. Lui dice sempre «segui la storia» ed è quello che abbiamo fatto».

Com’è nata l’idea di lavorare su un personaggio così importante, ma altrettanto difficile?
L’idea è nata a partire dal 2013 parlando con il mio amico Harold Crooks, autore di numerosi documentari che riguardano prevalentemente questioni socio-politiche e ambientali. Personalmente ho sempre avuto un grande interesse per David Hammons fin da quando, nel 1989, vidi la sua mostra alla galleria Exit Art di New York. Il suo lavoro mi aveva colpito e l’ho sempre avuto in mente, così quando con Harold abbiamo parlato della possibilità di fare un progetto insieme che avesse a che fare con il mondo dell’arte è stato immediato pensare a lui. Sapevamo che lui non avrebbe partecipato, conoscevamo bene il soggetto e questo ha fatto parte della sfida. Abbiamo parlato con tante persone che gli erano vicine, artisti, curatori, storici e critici d’arte, galleristi, ma la persona chiave è stata Steve Cannon che, purtroppo, è venuto a mancare nel 2019. Cannon era un poeta cieco afroamericano che nel 1990 fondò nel suo appartamento a New York, al 285 East di Third Street nell’East Village, il centro culturale chiamato A Gathering of the Tribes (alla Whitney Biennial 2022, organizzata dal Whitney Museum of American Art di New York, è stato ricreato l’ambiente con oggetti personali, libri, riviste e memorabilia, inclusa la parete rossa di David Hammons, il divano e un posacenere pieno di cicche – ndR). Grazie alla sua amicizia profonda con Hammons, Steve Cannon ci ha portato dentro la storia. Il punto centrale nel filo narrativo del film è proprio la poesia, in realtà gli era stato commissionato un testo, che scrisse per il bellissimo catalogo della personale David Hammons: Rousing the Rubble, 1969-1990, mostra di lancio dell’artista al PS1, prima che diventasse sede distaccata del MoMa. Anche l’uso del materiale d’archivio è diventato fondamentale per mostrare i luoghi e i tempi vissuti da Hammons. Non dall’infanzia ma dalla sua carriera, quindi dagli anni ‘60 quando arrivato a Los Angeles frequenta l’Otis Art Institute, gli anni della Watts Rebellion e poi il suo arrivo a New York ed il riconoscimento internazionale.

A proposito del suo riconoscimento internazionale, nel documentario c’è anche il filmato dell’intervista del 1993 nel suo studio all’American Academy di Roma…
Non è stato facile trovare filmati che lo riguardassero, ma un giorno guardando il website del fotografo e filmmaker Michel Auder, dove erano elencati tanti personaggi – inclusa Viva, una delle superstar di Andy Warhol – ho scoperto il nome di David Hammons. Auder era andato a Roma con la sua ragazza di allora, Cindy Sherman, dove aveva passato del tempo con Hammons realizzando nel suo studio un’intervista in presa diretta come il «cinéma vérité».

Nell’intervista l’artista fa riferimento a Duchamp e all’Arte Povera…
Hammons è un «burlone». A dirlo è Cannon – questa è la chiave del suo modus operandi – ricordando uno degli episodi in cui l’artista era andato nello spazio di Gathering of the Tribes, dove era solito condividere con l’amico poeta i suoi pensieri sull’arte. Steve era seduto su un divano, fumava e beveva un caffé quando Hammons, ad un certo punto, disse qualcosa come «odio questo quadro dietro di te» – Steve, come è noto, era cieco – «lo tolgo». «No, non puoi farlo», rispose Cannon. Ma l’artista lo levò e in due notti creò un murale rosso dipingendo, con il rullo comprato a Vienna, direttamente sulla parete di cartongesso dove dipinse elementi dorati alla Klimt e attaccò fili di ferro e capelli, referenze afroamericane. Un omaggio all’amico il cui titolo è Steve’s «Wall» / Flight Fantasy.

Nell’opera di David Hammons c’è la demistificazione degli stereotipi degli oggetti e del linguaggio che hanno dato origine alla cultura afroamericana come frutto dell’eredità del razzismo e la loro rivendicazione in qualità di simboli di un nuovo potere. Qual è la tua idea?
Non sono la prima persona a dirlo, ma è come se lui avesse una sfera di cristallo e riuscisse a vedere le cose come sono. Fondamentalmente nel suo modo di essere c’è la realtà di essere un uomo nero, afroamericano che si confronta con tutte le ingiustizie, la differenza di razza. Harlem è la sua casa. È lì che hanno vissuto anche Duke Ellington e tutti gli altri grandi musicisti, artisti, scrittori, filosofi. Lo stesso Hammons è un amante del jazz e suona per sé. Durante il tempo in cui l’artista ha sviluppato la propria visione, quindi, è stato molto consapevole della differenza tra la sua esistenza e quella del mondo bianco. È una differenza notevole ancora oggi, sebbene ci siano stati dei piccoli passi avanti.