«Juan Emar è un caso letterario, quanto Álvaro Yáñez Bianchi (che è la stessa persona) è un caso esistenziale. Non insolito, certo, nella sua realtà apparente, storica. Di cileni e di americani che hanno trascorso buona parte della loro esistenza fuori dal proprio paese per scelta o necessità, più spesso a Parigi che altrove, è possibile, infatti, segnalarne più di uno».
Così inizia la magistrale introduzione di Ignazio Delogu a Diez (raccolta di racconti pubblicata nel 1987 dalla mai abbastanza rimpianta Le Parole Gelate), che fino al mese scorso era l’unica opera di Emar tradotta in italiano. Safarà, casa editrice non nuova a ottime proposte di letteratura latinoamericana, ha ora ovviato a questa lacuna proponendo Ieri (pp. 144, euro 18), uno dei tre romanzi brevi dell’autore cileno, nella bella traduzione di Bruno Arpaia corredata dalla presentazione di Alejandro Zambra, già apparsa nell’edizione in inglese della statunitense New Directions (Yesterday, 2022).

BENCHÉ A LUNGO ignorato nel suo stesso paese, Emar ha ormai smesso da tempo di essere un autore «segreto»: a partire dagli anni ’70, infatti, ha finalmente attirato non solo l’attenzione dell’Accademia (che, nonostante la difficoltà di attribuirgli «parentele» attendibili, lo ha via via accostato a Macedonio Fernández, Felisberto Hernández, Alfred Jarry, Lautréamont e Roussel), ma anche dell’editoria indipendente, che ne ha ripreso la narrativa, i diari di viaggio e gli epistolari, aprendo così la strada a un numero crescente di traduzioni. Sia pure tardivamente, la maggior parte dei suoi scritti è dunque venuta alla luce, nonostante una rinuncia alla pubblicazione che lo vide scegliere un volontario silenzio, dopo aver dato alle stampe fra il 1935 e il 1937 quattro testi straordinari, accolti dall’indifferenza o dal dileggio di una critica per nulla disposta ad accogliere proposte così lontane dal gusto corrente, e comunque ostile a un outsider che si era connotato come intellettuale scomodo, pronto a caldeggiare estetiche provocatorie.

Negli anni ’20 del Novecento, con lo pseudonimo di Jean Emar (dal francese J’en ai marre, sono stufo), poi corretto in Juan Emar, Álvaro Yáñez condusse sulle pagine del quotidiano di proprietà del padre, La Nación, un’autentica crociata a favore dell’arte moderna, con cui era entrato in contatto durante i lunghi soggiorni in Francia, e collaborò intensamente con il Grupo Montparnasse, fondato dal pittore Luisd Vargas Rosas. Flâneur dichiarato che a vent’anni sosteneva di voler essere el inutil de la familia, Emar finì per smentire sé stesso, prima con una frenetica attività in campo culturale e artistico, e poi consacrandosi a un’opera titanica cui si dedicò a partire dal 1956, quando rientrò in patria e si stabilì in un’isolata hacienda araucana, dove sarebbe morto nel 1964.

«Devo concludere i miei giorni ritirato dal mondo, lontano, senza più ascoltare il rumore degli altri, ma facendo sorgere da me stesso il mormorio della mia stessa vita», scrisse alla figlia Carmen, e in solitudine si immerse nella complessa stesura di Umbral, il cui manoscritto arrivò a superare le cinquemila pagine: uno sterminato metaromanzo che attraversa tutti i generi, riflette continuamente sul proprio farsi e si apre, scrive Delogu, «all’imprevedibile, e cioè al meraviglioso». Emar, ormai consapevole di non voler scrivere «per gli altri», non mostrò a nessuno quel testo simile a un organismo vivo e in perpetua espansione, profetizzando che a pubblicarlo sarebbero stati posteri sconosciuti, «seduti sui gradini della sua tomba» (in effetti il primo dei cinque volumi apparve in Argentina nel 1971, presso le Ediciones Carlos Lohle, mentre la versione integrale fu pubblicata nel 1996 dalla Biblioteca Nazionale cilena).

I ROMANZI Ayer, Un año, Miltín 1934 e i racconti riuniti in Diez precedono e annunciano il dispiegarsi di Umbral e rimandano al progetto innovativo delle avanguardie europee, le cui ripercussioni arrivarono anche in America latina, dove la coesistenza forzata con un’arte e una letteratura di taglio realista-naturalista appariva particolarmente difficile, se, come Emar, si voleva sondare la complessità di un altro universo, nascosto dietro il sipario della vita quotidiana.
Ieri, composto da brevi episodi ambientati nella città immaginaria di San Agustín de Tango e racchiusi nello spazio di un’unica giornata, è un testo tenacemente letterario, un ingranaggio perfetto che demolisce le convenzioni e i luoghi comuni grazie a un uso sistematico dell’assurdo, coniugato a un tocco di crudeltà e al costante sberleffo indirizzato a una società immobile, ancora sorretta da un’impalcatura coloniale.

SIN DALLE PRIME righe Emar conquista il lettore con uno sfrenato umorismo nero, raccontando l’accidentata decapitazione di Rudecindo Mallea, borghese di mezza età accusato dal clero di praticare «l’amore cerebrale» (quasi un’anticipazione di quello che epoche successive hanno chiamato «sesso virtuale») e per questo condannato a morte dal clero e dai benpensanti. Il narratore e sua moglie attraversano poi una città che si va costruendo al ritmo dei loro passi e diventano testimoni di bizzarrissimi eventi (allo zoo uno struzzo inghiotte una leonessa e la rigurgita intatta ma priva della pelle, che poi il volatile userà come giaciglio) cui non esitano a prendere parte, unendosi al coro lacerante delle scimmie che salutano il sole.
A San Agustín de Tango niente è ciò che sembra, ogni cosa va decifrata ed esige l’uso avveduto di tutti i sensi, in primo luogo di uno sguardo realmente capace di «vedere» (le immagini evocate da Emar, che per tutta la vita fu anche pittore, sono di un potenza e di una suggestione straordinarie) e soprattutto di cogliere l’espandersi in ogni direzione delle infinite possibilità che si sprigionano dall’esistente. Ogni episodio, perciò, è fonte di osservazioni che scompongono minuziosamente il reale secondo una tecnica «cubista», e, in parallelo, generano riflessioni metafisiche, come accade nello studio del pittore Ruben de Loa, che illustra una teoria sui colori complementari e sulla loro capacità di controllare il caos.

A DIFFERENZA del suo compagno di flânerie Vicente Huidobro, che scrisse parte dei propri versi in francese, il cosmopolita Emar rimase fedele alla lingua e alle atmosfere del Cile, ricorrendo a innumerevoli modismos e a un’onomastica inconfondibile, dietro i quali si nasconde una radicale parodia della letteratura costumbrista (o, in parole dell’autore, del «colore locale»), amata da una borghesia irreparabilmente conservatrice.

NONOSTANTE questa esibita e irridente «cilenità», i suoi testi possiedono un respiro universale e, riletti oggi, ce lo mostrano come un autore capace di sottrarsi agli imperativi della cultura ufficiale, alle mode e all’illusione dell’assoluta leggibilità programmata e imposta dall’industria editoriale, mentre la sua adesione all’avanguardia appare così personale e audace da andare ben oltre i confini di un’epoca, proiettandolo verso un’ assoluta libertà creativa.