Il romanzo italiano ha accompagnato e anzi anticipato i temi della «questione meridionale» e del dibattito sulla dinamica del Risorgimento che di quella è la necessaria premessa. Che si fosse trattato di una rivoluzione mancata (come nella tesi di Gramsci) o tradita addirittura (così viceversa Gobetti), di una sostanziale conservazione dello statu quo ante, di continuità nel lungo periodo dell’opportunismo e trasformismo delle classi dirigenti passate in poco d’ora dai Borbone a Casa Savoia (e poi al fascismo, quindi al centrismo democristiano ecc. ecc.), di tutto questo e di quasi nient’altro tratta la filiera di ceppo robustamente naturalista che si inaugura con I Vicerè (1894) di Federico De Roberto, prosegue fra gli altri con I vecchi e i giovani (1913) di Luigi Pirandello e culmina ne Il Gattopardo (’58) di Tomasi di Lampedusa, non escluse propaggini filoborboniche e di cattolicesimo tradizionalista (vedi L’alfiere, ’42, di Carlo Alianello che pure fu un notevole scrittore) o autentici dossier di controstoria quali Il sorriso dell’ignoto marinaio (’76) di Vincenzo Consolo.
La filiera è integrata da un romanzo di Francesco Jovine (1902-1950) riproposto nei decenni a cadenza ma, forse, non ancora entrato nel novero dei proverbiali: Signora Ava, risalente al 1942 e ora pubblicato da Cosmo Iannone Editore (pp. 355, € 17,00) a cura di Sebastiano Martelli, che vi annette un saggio di grande spessore ed equilibrio interpretativo collocandolo con dovizia di riferimenti bibliografici «all’incrocio fra storia, memoria e universo antropologico». Jovine scrisse il romanzo fra Roma, Tunisi e il Cairo (dove aveva insegnato, dal ’38 al ’41, per fuggire la dittatura fascista) riprendendo in mano il suo saggio Del brigantaggio meridionale uscito postumo («Belfagor», vol. 25, n. 6, 1970), un brogliaccio narrativo, Pietro Veleno brigante già avviato nel ’29, e infine gli appunti di viaggio, catabasi e ritorno alle Madri, per un reportage uscito nel ’41 sul Giornale d’Italia e poi confluito in Viaggio in Molise (a cura dello stesso Martelli, Iannone 2018).
La materia prima è dedotta dalla memoria del padre, autodidatta e (così lo definisce dedicandogli il romanzo) «ingenuo rapsodo» che dà alla pagina una particolare aura favolistica, non riducibile alla nuda esattezza del verismo che, sia detto per inciso, nel Molise non ebbe peraltro rappresentanti di rilievo. Il tempo del romanzo è ovviamente il biennio 1859-’61 (agonia del regime borbonico e passaggio di Garibaldi), il luogo con ogni evidenza la natìa Guardialfiera dove si esprime coralmente una comunità da cui emergono via via alcuni personaggi in primo piano, da don Matteo, prete di campagna onesto e caritativo ai membri della famiglia De Risio, «galantuomini» diversi fra loro come possono esserlo un ex ufficiale napoleonico (illuminista e poeta) e un ecclesiastico pasciuto e usuraio, fino ai protagonisti di una impensabile storia d’amore, quella fra Pietro Veleno (nome che è un senhal), il servo di casa, e Antonietta la figlia del padrone, bella di una bellezza quasi stilnovista: gli innamorati, travolti dagli eventi, costretti alla fuga e ad affiliarsi a una banda di briganti antipiemontesi, soli e da tutti abbandonati ma soccorsi da don Matteo, verranno con ogni probabilità catturati in un finale che Jovine lascia tuttavia sospeso.
La forza del romanzo è nella capacità di sentire nel profondo, al di là degli schemi socio-economici, l’universo atavico dei contadini. Il lettore ne avverte la partecipazione affettuosa senza essere indulgente, né deve fuorviare il titolo del romanzo tratto da un canto popolare del Mezzogiorno che viene posto in epigrafe («Al tempo della Signora Ava / un vecchio Imperatore / a morte condannava / chi faceva l’amore») perché lo sguardo resta lucidissimo specie riguardo alla natura dei conflitti di classe che in Molise, nota lo scrittore, non comportano la tradizionale ostilità fra contadini e nobili, tipica del feudalesimo morente, ma paradossalmente quella fra contadini e «galantuomini» e cioè la borghesia nel suo complesso. Agli occhi dei contadini, infatti, la proprietà nobiliare è remota alla vista, interiorizzata nei secoli fino ad apparire naturale, mentre vistosa e offensiva è quella dei nuovi ricchi che proprio ai nobili decrepiti e indebitati l’hanno sottratta, negando ogni usufrutto e depredando chi da sempre quella terra lavora. Ciò denuda alla radice tanto il vecchio sanfedismo (tra le fonti di Jovine c’è senza dubbio il grande saggio di Vincenzo Cuoco) quanto il brigantaggio antipiemontese così onusto di stereotipi riguardo ai descamisados, lazzaroni e delinquenti comuni che ne sarebbero protagonisti come si trattasse di una ricorrente, eterna Vandea.
Scrive Jovine in una pagina poi confluita nel Viaggio in Molise: «Il cafone pensava anche che il possesso della terra da parte del nobile era legittimo in quanto di lontana origine, irraggiungibile nella memoria; una sorta di privilegio mitico come quello del re e della santa romana chiesa. L’assalto dato invece dal borghese alla terra si svolgeva sotto i suoi occhi. (…) Da qui nasceva, agli occhi dei contadini, la palese ingiustizia: il possesso della terra in mano a quelli che non la coltivavano più, che l’avevano abbandonata e che ne diventavano proprietari ai suoi danni». Tale per l’appunto è il motivo che ciclicamente spinge una classe che, pur sfruttata a morte nei secoli dei secoli, non ha mai fatto rivoluzioni (a parte più o meno virulente ma comunque esantematiche jacqueries) e invece ha sempre agito da braccio secolare della reazione.
Signora Ava, che Goffredo Fofi chiamò una volta «un Gattopardo che parla dalla parte dei cafoni», suggella la prima giovinezza di Jovine, il quale entra nella Resistenza e si iscrive al PCI insieme con quella che con grande oculatezza ne gestirà il lascito letterario, sua moglie Dina Bertoni, insigne pedagogista e storica della scuola, allieva come lui di Giuseppe Lombardo Radice. Da anni Jovine sta lavorando a quello che sente il romanzo della maturità e della sua stessa vita e però Le terre del Sacramento uscirà postumo da Einaudi due mesi dopo la morte dello scrittore, avvenuta a Roma il 30 aprile del 1950. All’atmosfera favolosa venata di magia folclorica che pervade Signora Ava qui subentra una caratterizzazione storica più prossima a chi scrive e più definita in un contesto già imminente sul trionfo fascista. Alla natura coreutica dei personaggi reclusi nell’antico Molise succede una tipologia singolarmente precisata a partire dal protagonista, Luca Marano, che comunque è a sua volta portavoce di un vastissimo coro (masse di braccianti e di diseredati senza terra) da cui egli emerge mostrando le ferite di un autentico romanzo di formazione. Improprio parlare di realismo socialista, come pure venne fatto, e sarebbe sufficiente il rilievo di Asor Rosa che in Scrittori e popolo (’65) lo salva dalla retorica populista riconoscendogli invece una «innegabile verità e consistenza sociologica».
Ma si tratta di un romanzo che nemmeno ha goduto dell’intermittenza di riscontri toccati a Signora Ava, la cui ultima comparsa risaliva al 2010 quando uscì da Donzelli a cura di Francesco D’Episcopo, un altro benemerito studioso dello scrittore molisano: recensendolo per «Alias» il 5 febbraio del 2011, Clotilde Bertoni nella sua pagina dal titolo eloquente, Risorgimento diseredato, disse di uno stile di «sobrietà ellittica» e spese volentieri il nome di Stendhal.