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Josquin Desprès, rinascimentali ventagli canori

Josquin Desprès, rinascimentali ventagli canori

Il concerto 500 anni dalla morte del grande musicista. All'Università di Roma verrà celebrato oggi con una esibizione

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 27 novembre 2021

A cinquecento anni dalla morte, il grande compositore rinascimentale Josquin Desprès riceve oggi dalla Istituzione Universitaria dei Concerti dell’Università la Sapienza, a Roma, un omaggio più che dovuto. Sul podio Peter Phillips, con i Tallis Scholars. Era il 20 aprile del 1303 quando – con la bolla «In Supremae eminentia Dignitatis» – Bonifacio VIII, il papa che Dante condanna ante mortem all’inferno, fondò l’università di Roma, la cui cappella era la chiesa di Sant’Ivo, eretta da Borromini, oggi in Corso Rinascimento. A Roma, Josquin arrivò nel 1489 (ma aveva preso contatti già nel 1486) e vi restò fino al 1494, come cantore della cappella papale. Nel 1503 si trasferì a Ferrara, al servizio di Ercole d’Este, la lasciò nel 1504 e tornò definitivamente in Francia, dove morì nel 1521, all’età di circa settant’anni (non si conosce la data precisa della nascita).

Già in vita era diventato famoso in tutta Europa. E dopo morto la sua fama si accrebbe. Lutero scrisse di lui: «Josquin era maestro delle note, le costringeva a fare quel che voleva lui; invece gli altri musici sono costretti a fare quel che vogliono le note». Lutero coglie così la novità dell’impostazione musicale di Josquin: senza rinunciare agli artifici del contrappunto franco-fiammingo, che anzi adopera con grande abilità, e spesso complicandone gli intrichi, vuole però che la musica all’ascolto, e non solo alla lettura, faccia percepire il rapporto di sintonia tra le parole e il canto.

Per esempio, come illustra chiaramente Diether de la Motte nel capitolo dedicato a Josquin del suo libro sull’Analisi Musicale (Astrolabio, 2020), nell’Agnus Dei della messa Pange Lingua Josquin accentua la cupezza del dolore, che spinge a chiedere misericordia a Dio, facendo entrare le voci superiori solo quando si intona «dona nobis pacem», mentre quando si canta «miserere nobis» tacciono.

L’entrata delle voci acute rende percepibile all’orecchio l’allargarsi del ventaglio sonoro che annuncia la pace. Tutta la produzione di Josquin, mottetti, chansons, frottole, è attenta a rendere percepibile il nesso tra il testo e la musica. Su questa via si formerà il madrigale italiano, che dunque deve la sua libertà espressiva più alla chanson francese e al mottetto franco-fiammingo che alla frottola. Nove anni dopo la morte di Josquin, esce a Roma, nel 1530, la prima raccolta di Madrigali: Madrigali de diversi musici libro primo de la serena.

Nel 1533 ne esce una nuova edizione: novi madrigali de diversi excellentissimi musici. Libro primo de la Serena. E molti dei madrigalisti sono fiamminghi, dunque già maestri della chanson francese: Arcadelt, Verdelot, Buus.
La generazione successiva conta, tra gli altri, Adrian Willaert che è il fondatore della cosiddetta Scuola Veneziana. Cipriano de Rore avvia poi il madrigale a quegli esiti estremi di fedeltà alla parola che conduce a Monteverdi. Senza contare l’immenso Heinrich Isaac, coetaneo di Josquin, che, prima di Bach, come Bach per il calendario luterano, scrive, nel Choralis Constantinus, musica per tutto il calendario liturgico romano. Anche per quanto riguarda il mottetto, Josquin è il punto di volta che conduce alla chiarezza di Palestrina, del quale oggi l’Istituzione dei concerti dell’Università farà ascoltare due pezzi: Surge, amica mea e Ecce, tu pulchra es.

Insomma, Josquin è nella musica del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento, ciò che nella poesia sono Ariosto, o Bembo, o Della Casa, e nella pittura Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Michelangelo – al quale i contemporanei paragonavano Josquin – lavora, la prima volta, alla Cappella Sistina dal 1508 al 1512. Negli stessi anni in cui opera Michelangelo, Bramante progetta i suoi edifici: San Pietro in Montorio è terminato nel 1502. Raffaello dipinge le Stanze dal 1508 al 1524. Ariosto pubblica la prima stesura dell’Orlando Furioso nel 1516. Agli Asolani, Bembo lavora dal 1497 al 1502, le Rime escono nel 1530. Nel 1470 esce a Roma, per i tipi di Giovanni Filippo De Lignamine l’editio princeps (la prima edizione) dell’Istitutio Oratoria di Quintiliano, che da allora occuperà la mente di letterati e musicisti, e Josquin non sfugge al fascino di questo trattato sulla disposizione del discorso e delle sue parti. Dispone infatti il processo musicale in modo da proporre, in note, un percorso simile a quello dell’oratoria.

Come le cinque parti del discorso – prooemium, narratio, probatio, refutatio, peroratio – sono i puntelli che costruiscono razionalmente l’argomentazione, così gli eventi musicali si succedono con logica analoga. L’intuizione è densa di futuro, anima per esempio, tutta l’attività di Monteverdi e arriva fino a Bach, che interpreta musicalmente la refutatio, confutazione, come una sezione musicale che neghi o stravolga la sezione precedente. Se la probatio di una fuga sarà stata un passo fittamente contrappuntistico, la refutatio sarà un passo monodico. Sempre tenendo presente che, a differenza della musica dei secoli successivi, la musica del Cinquecento evita la ripetizione, ama la continua varietà e variazione degli elementi.

Tornando a Josquin, del quale oggi si ascolteranno tre pezzi – la Missa Hercules Dux Ferrarie, il Veni Sancte Spiritus e lo straordinario Stabat Mater – non sarà mai sopravvalutata la sua incidenza nel trasmettere un’arte, quella franco-fiamminga, profondamente ricostruita e rimodellata in vista di sviluppi futuri: da una parte la fluidità discorsiva del contrappunto di Palestrina, dall’altra l’espressività, e perfino l’espressionismo del mottetto e del madrigale tardocinquecentesco fino a Gesualdo e Monteverdi.

Come dalle torsioni dei nudi michelangioleschi si può far nascere il successivo manierismo pittorico di Rosso Fiorentino o di Giulio Romano o di Parmigianino, così dall’ardita simbolizzazione dei procedimenti musicali introdotta da Josquin si possono immaginare i madrigalismi e le arditezze armoniche di Cipriano de Rore, di Luca Marenzio, di Gesualdo, di Monteverdi. E anche oltre, se ancora Bach – e Haydn, e Beethoven – alludono alla croce, nel crucifixus, con note disposte a croce, o fanno salire la melodia per indicare un’ascesa, la fanno scendere per una discesa: nel Magnificat Bach alle parole «deposuit potentes de sede» fa cantare una melodia discendente e ascendente a «exaltavit humiles».

Indipendentemente, tuttavia, dall’influsso che la musica di Josquin può avere esercitato sui suoi contemporanei e sui posteri, essa ha un valore immenso di per sé. Quando guardiamo la Scuola di Atene di Raffaello, o le Sibille michelangiolesche della Cappella Sistina, non pensiamo a quanto quella pittura abbia deciso le sorti di quella successiva: godiamo la loro sovrana bellezza per ciò che è. Una sovrana bellezza, appunto. Così per la musica di Josquin: certo che nasce da qui tutta una nuova civiltà musicale, ma l’ideale è goderne la sovrana armonia, la incorruttibile chiarezza, la illimitata espressività, che è altro, ovviamente, da quella romantica. È l’espressività di un Ronsard, per restare in ambito francese, la chiarezza di esposizione di un Montaigne – autori più tardi, è vero, ma che nascono da uno stesso crogiuolo, quello francese della finesse, della nuance. «Nymphes des bois», ninfe del bosco, canta la Déploration sur la mort de Ockeghem. «Mille regrets», mille rimpianti, canta una sua chanson. Ecco: una musica della souplesse, della discrezione, dell’equilibrio. O come dicevano i contemporanei di Josquin: una musica delle ninfe, degli angeli

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