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Joseph O’Connor, Specchi, fumo e maschere sulla scena di una fuga dall’Io

Joseph O’Connor, Specchi, fumo e maschere  sulla scena di una fuga dall’IoEllen Terry nel ruolo di Lady Macbeth in Macbeth di William Shakespeare, foto di Window & Grove, 1888 (Londra, National Portrait Gallery)

Scrittori irlandesi Alternando più voci e più registri – lettere, pagine di diario, trascrizioni di interviste e di documenti radiofonici, note, Joseph O’Connor esibisce una tecnica che rimanda, nelle sue stesse parole, alla «confusione ordinata» di un album di ritagli; e intrecciando realismo e allusioni al fantastico, edifica il suo «Teatro d’amore» attorno a tre figure-chiave del tardo Ottocento inglese, Bram Stoker, Henry Irving e Ellen Terry: da Guanda

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 19 settembre 2021

Nella sua recente raccolta di saggi, Languages of Truth, Salman Rushdie oppone alla great tradition della narrativa realistica borghese, la tradizione alternativa della letteratura da lui definita proteiforme, che muta genere, struttura, voci, modi «senza sacrificare verità o profondità, passione, forma o interesse, e senza diventare un caos confuso, sconcertante, vuoto e inutile». Una letteratura che riflette, tanto nella forma quanto nei contenuti, l’instabilità del mondo, non essendo «intrappolata nell’errore di vedere il reale come ordinario, mentre invece è straordinario, moderato mentre è estremo, di vederlo, in altre parole, non com’è, ovvero pieno di meraviglie, ma solo come puramente naturalistico». Perfetto esempio di tale «letteratura proteiforme» è l’ultimo romanzo di Joseph O’Connor, Teatro d’amore (traduzione di Elisa Banfi, Guanda, pp. 376, € 20,00), una storia che intreccia realismo e fantasia, toccando temi come l’identità di genere, la sessualità, l’alterità, lo sdoppiamento del sé e la trasgressione.

Album di ritagli
Alternando più voci e più registri – lettere, pagine di diario, trascrizioni di interviste e di documenti radiofonici, note per un romanzo mai scritto – O’Connor esibisce una tecnica che rimanda, nelle sue stesse parole, alla «confusione ordinata» di un album di ritagli.

Il romanzo, i cui protagonisti sono tre figure-chiave del teatro inglese tardo-ottocentesco – il direttore del Lyceum Theatre di Londra, Bram Stoker, destinato a ottenere fama postuma imperitura come creatore di Dracula, e le due maggiori star dell’epoca, il tirannico Henry Irving e la bellissima Ellen Terry – si apre con una lettera di Stoker, datata 1908, in cui lo scrittore invia all’attrice «un mazzetto di pagine di diario e appunti che ho raccolto in maniera discontinua nel corso degli anni e che avevo cominciato a trasformare in un romanzo… o forse in un pezzo teatrale».

È questa l’ossatura su cui si inserisce la relazione tra il più grande interprete shakespeariano del suo tempo, l’attrice più amata, famosa e trasgressiva della sua generazione, e un misconosciuto autore horror part-time, soggiogato dal loro narcisismo e avvinto dal loro innegabile fascino. Stoker, giovane impiegato dublinese con velleità di critico teatrale, ricevuta da Irving nel 1876 la proposta di trasferirsi a Londra per trasformare una sala in disarmo in un teatro degno della fama (e dello sterminato ego) del mattatore, lascia una carriera sicura in Irlanda, nonostante le proteste della moglie, che ha appena sposato, e che lo segue malvolentieri. Così, mentre il matrimonio è messo subito in crisi dalle richieste del nuovo lavoro, dalle pretese dell’intransigente Irving e, non da ultimo, dall’oscuro fascino che la metropoli notturna esercita sulla confusa identità sessuale di Stoker, il legame fra i tre protagonisti si consolida e si mantiene vivo nel corso dei decenni, nonostante le inevitabili gelosie e ripicche.

L’ombra di Dracula aleggia sull’intera vicenda. Fin dall’inizio, O’Connor semina indizi: Stoker è intimorito dalla vista del sangue in seguito a un trattamento con sanguisughe subito da bambino; al loro primo incontro, il cadaverico Henry Irving, intabarrato in uno scuro mantello, gli si rivolge con un ironico «Non mordo»; più tardi, gli mostrerà una foto di Sarah Bernhardt sdraiata in una bara; al Lyceum, dove gli attori usano l’aglio per prevenire il mal di gola, è assunto un macchinista di nome Harker, e fa pure un’apparizione un poliziotto dai lunghi incisivi, mentre non si contano i riferimenti all’aspetto macabro di Irving. Tuttavia, a presiedere alla genesi del vampiro più famoso del mondo, è il fantasma di una ragazza assassinata, chiamata, non a caso, Mina, che infesta la soffitta del Lyceum Theatre, un nido d’aquila in cui lo scrittore immagina le sue storie orrifiche.

Già in un altro romanzo ambientato nel mondo del teatro, Ghost Light (Una canzone che ti strappa il cuore, in italiano), O’ Connor faceva riferimento fin dal titolo alla luce che si lasciava accesa nottetempo nei teatri vittoriani per permettere ai fantasmi di «mettere in scena i loro spettacoli». Lo «spettacolo» messo in scena da Mina, che conta le stelle attraverso le tegole rotte, «una per ogni donna assassinata da un uomo», è a esclusivo beneficio di Stoker, perché possa restituirle la vita raccontando la sua storia: così il fantastico entra in quella che si sarebbe potuta scambiare per una narrazione biografica, enfatizzando la natura fantasmatica del reale, l’evanescenza e la molteplicità dell’io, la presenza di un lato oscuro in ogni individuo.

Stoker, che si aggira di notte «in cerca di qualcuno. O forse di sé stesso» nell’East End dove miete vittime Jack lo Squartatore, pur non ammettendolo neppure nel suo diario, è molto più sensibile al fascino transgender di Harker che non a quello della moglie; Irving, pur coltivando la propria fama di rubacuori, si dimostra geloso di Stoker al punto da distruggerne il matrimonio. Quanto a Ellen Terry, prendendo le difese di un famosissimo lavoro di Stevenson, al tempo appena uscito e oggetto di grandi polemiche, constata che «tutti hanno un Mr Hyde, un’altra versione di sé. Una direzione non presa, forse… Una sorta di regno delle ombre in cui l’Altro vive, sempre».

Oltre ciò che appare
«Non potrei essere un narratore se non credessi che noi siamo più di quello che appare», ha spiegato O’ Connor, «e il fatto che una cosa non è vera non vuol dire che non vi si possa credere… Sappiamo che c’è un altro mondo e abbiamo bisogno di trovare qualche maniera per accedervi. Che lo si chiami escapismo o grande arte, per me non fa differenza. Abbiamo bisogno di trascendere il nostro Io ordinario, quotidiano e corporeo».

In questo senso, il teatro, mondo «di specchi e fumo», dove gli attori assumono ruoli sempre diversi, mascherando il proprio Io fino ad annullarlo, offre una prospettiva unica di come si possa «evadere dalla prigione di sé stessi. Vedere il mondo dalle finestre di una stanza altrui». Come il titolo originale del romanzo, Shadowplay, suggerisce, l’esistenza appare un gioco d’ombre, la cui inquietante evanescenza è dipinta, per contrasto, da O’Connor, con un linguaggio vivace, colorato e, soprattutto, decisamente musicale. «Sono interessato soprattutto alla musicalità della prosa», ha affermato lo scrittore irlandese. «Cerco di avere un’idea di come un libro ‘suonerà’ prima di iniziare a scriverlo».

Se poi si considera che O’Connor è anche un esperto di musica rock e che, nel suo precedente romanzo, Il Gruppo, ha raccontato la storia di una band che si forma nei primissimi anni ’80, non appare forzato ritrovare nel titolo Shadowplay il riferimento alla canzone omonima di un gruppo emblematico di quel periodo, i Joy Division, il cui testo tratta del vagare notturno di un personaggio solo e turbato come il Bram Stoker di O’Connor. Purtroppo, queste allusioni, che contribuiscono al fascino di un romanzo in cui il reale si mostra in tutta la sua straordinarietà, si perdono nel banale (e fuorviante) titolo scelto per l’edizione italiana.

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