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Joni Mitchell, stile magnetico

Joni Mitchell, stile magneticoLa copertina di «Blue» (1971), quarto album di Joni Mitchell

Anniversari/Compie 80 anni una delle artiste più influenti della scena musicale internazionale La cantautrice canadese nelle parole di chi le è stato accanto nella vita e di chi stravede per i suoi dischi. «Penso che tra un secolo la gente si ricorderà dei Beatles, di Bob Dylan e di lei», Graham Nash

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 4 novembre 2023

La Signora del Canyon, del Taxi Giallo e delle Rose compie ottant’anni. Portati con la signorilità blasé di chi ha molto visto, vissuto, amato, conteso, combattuto, nella vita. Compreso un aneurisma nel 2015 che gli ha rubato per lunghi anni le due cose più belle che la natura le ha regalato, oltre a un talento smisurato: la voce e le mani per dipingere. Joni Mitchell entra nella nona decade della sua vita straordinaria e inquieta, e lo ha fatto facendosi precedere da un disco dal vivo registrato nell’estate dello scorso anno che è un regalo al mondo e a se stessa, per essere riuscita a sopravvivere e a domare con caparbietà il silenzio obbligato della malattia: Live at Newport. Una meraviglia struggente preparata con caparbia volontà in session informali casalinghe, mano a mano che riprendeva a parlare e a ritrovare la «sua» voce, arrochita e straziata dal tempo, dalle sigarette e dalla malattia, ma indomita e duttile forse come mai prima. Un soprano d’argento diventato contralto di sostanza.

IL DESTINO NELLE STELLE
Maestra di cerimonia sul palco la cantautrice Brandi Carlile, che ha la metà o quasi degli anni di Joni, e che bene ha fatto a introdurre l’entrata inattesa di Joni Mitchell sul palco con un «angeli di Newport, facciamo la storia insieme». E la storia è passata sulle ali di canzoni tra le più belle del secolo scorso, Big Yellow Taxi (che non è un veicolo a chiamata, ma come in Canada chiamavano i cellulari della polizia!), Both Sides Now, ispirata dal Re della pioggia di Saul Bellow, A Case of You, una delle canzoni urgenti e fiere che Joni scrisse sulla fine della sua storia intensa con Graham Nash. E tante altre meraviglie.
Joni è nata il 7 novembre 1943, a Fort McLeod, Canada. Lo smisurato e poco ricordato paese che ha regalato alle note popular giganti come Neil Young, Robbie Robertson, Bruce Cockburn, Leonard Cohen, solo per citare i più noti, col passaggio obbligato negli States, centro di irradiamento sovrano di tutto il rock e dintorni che ha avuto successo, come l’Inghilterra ha fatto da faro per l’Europa. Il suo quadro astrologico, per chi crede ai percorsi degli astri piuttosto indifferenti alle nostre sorti, è quello di una donna Scorpione ascendente Cancro. Secondo gli astrologi, un talento dalla personalità magnetica, dotata di un carisma immediato e non negoziabile: c’è e basta. Come il fascino, che, sempre secondo gli interpreti di mappe stellari, ha facilità a rapportarsi con gli altri, ma tenendo sempre ben presente la coda pronta a colpire chi ritiene l’abbia colpita.
Ognuno legge i segni come vuole, ma ci sono parecchie cose fuor di dubbio che rientrano in questa stereotipata narrazione di destini legati alle stelle: Joni Mitchell è una donna carismatica, magnetica, dal talento smisurato e dal fascino assoluto. Un suo disco magnifico, il primo che in qualche misura creò per lei la smagliante reazione chimica tra le forme della ballad rock e la sofistica sintassi jazzistica che aveva intuito (un percorso che sarebbe culminato in Mingus, 1979) si intitola «corteggia e illumina», Court and Spark. Quello che ha fatto lei, con la vita e con l’arte. Punto e a capo. E (poca) pazienza se diversi anni fa la rivista Rolling Stone fece la mossa maldestra e maschilista di costruire un vero e proprio diagramma con le molte storie d’amore di Joni nel mondo musicale: fosse stata un maschietto con la chitarra sarebbe passata per un rubacuori scapestrato e romantico, essere invece una donna super intelligente, bella, bionda e talentuosa avvicina alla facile categoria di spregiudicatezza e amoralità. Anche per una redazione «rock». Soprattutto, non andava (e non va giù) che Joni, nel suo privato, abbia fatto come voleva, quando voleva, e perché riteneva giusto volerlo, come dovrebbe essere per ogni essere senziente. Anche per chi ha il frammento di una briciola del talento di Joni Mitchell.

DICONO DI LEI
A questo punto, diamo la parola a chi Joni l’ha a lungo frequentata, di persona o sulle sue canzoni pietre miliari, a cominciare dal racconto che ci ha mandato Maria Pia De Vito, signora del canto jazz, ma anche dei repertori barocchi e folk affrontati con spirito innovativo, e della parte più ispirata della popular music. Joni Mitchell è entrata molte volte nei suoi dischi: l’ultima testimonianza discografica è nel memorabile Dreamers, dedicato ai maestri del songwriting degli anni Settanta, sognatori e creatori di bellezza.

MARIA PIA DE VITO (vocalist e didatta)
Joni e l’estate del ’79: mi ricordo, era d’agosto, ed ero ad Ogliastro, Sardegna. Per la prima volta in viaggio indipendente, con zaino e sacco a pelo avevo raggiunto gli amici che facevano campeggio libero nella pineta sulla costa. Il luogo era un incanto. C’era una radura che confinava direttamente con la scogliera, il mare a portata di mano. In un pomeriggio di diatribe musicali un amico assai simpatico mi aveva detto «senti qua, questa secondo me ti piace»; e aveva pigiato con aria sorniona un tasto del «radione» a pile, radio e vano per le musicassette registrate che portavamo dovunque. Era Joni Mitchell. Credo il brano fosse The Circle Game, cui seguirono altre meraviglie. (Nella cassetta da un lato c’era Ladies of the Canyon, dall’altro Blue). Non mi staccai dal radione per ore, distesa estatica ad ascoltare, guardando le cime dei pini. Che botta! Non credevo alle mie orecchie. Cantava come un fringuello, suonava chitarra e piano in un modo mai sentito prima. Parlava di emozioni intime, difficili, a volte controverse, offerte senza falsi pudori. La voce era luminosa e senza sforzo, il fraseggio liquido e ritmico, con sfumature blues implicite. I racconti, i discorsi, che non riuscivo ancora a capire pienamente, dettavano il fraseggio, richiedevano degli strappi alla forma, creando asimmetrie, esigendo scarti di tempo. E quegli acuti… Ma quello che mi colpì nel profondo fu il senso di indipendenza e di individuazione che emanava da lei. Che sogno, che invidia per quella libertà. Poi ripartii, da sola. Non lo sapevo ancora, ma stavo facendo la mia Hejira. Un viaggio che durò 40 giorni, e toccò la Calabria, la Sicilia fino a Levanto, in Liguria, e poi Firenze, Sanremo… poi ritornai a Napoli. Tante cose accaddero. Posso dire col senno di poi che quel viaggio e quell’ascolto mi diedero la spinta per decidere di vivere facendo musica. Ritrovai Joni dopo un paio di anni. Studiavo e cantavo jazz, a Napoli erano passati Sara Vaughan, Pat Metheny Group, Chick Corea, McLaughlin e i Weather Report, per cui ero impazzita. Qualcuno mi segnalò che Joni era uscita con un omaggio a Charles Mingus, un disco con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Jaco Pastorius, Peter Erskine, Don Alias. Lo comprai di corsa. Botta numero due, quella definitiva. «Tutto torna!» mi dissi. Compresi di che sostanza fosse quella forza che avevo sentito dal primo ascolto: Joni era una improvvisatrice, una poetessa, una compositrice, una pittrice, una che era «casa» tra i più grandi jazzisti viventi. I brani del disco, (o «audio paintings», dipinti da ascoltare, come lei li chiamava) erano racconti perfetti, scene e frasi fulminanti (God Must Be a Boogie Man!) dipinti con voce e parole, con i bassi febbrili di Pastorius, i cluster di Hancock, gli assoli – Haiku o i frullii sonori di Shorter, come in un unico flusso di coscienza, una comunicazione sinestetica tra geni. Diventò la mia musa.

DAVID CROSBY (rocker)
Il vecchio leone della West Coast più sognante e libertaria, scomparso a gennaio di quest’anno, sopravvissuto a una giovinezza a dir poco pericolosa per il troppo amore per le sostanze psicotrope e, da vecchio, al Covid, ha avuto un’intensa relazione con Joni Mitchell. Non solo sentimentale: molte ragioni artistiche, naturalmente, accomunavano i percorsi artistici dei due. Una su tutte, l’uso per nulla convenzionale delle tecniche chitarristiche, più vicine a certa sintassi jazzistica che alle tranquille tecniche di arpeggio e di «strumming» usate nel rock. Il baffuto autore di Guinevere, peraltro, fu produttore del primo disco di Joni Mitchell, Song to a Seagull, uscito nel fiammeggiante 1968, bella e intensa creazione, ma ancora in pieno solco folk rock. Avevano iniziato a frequentarsi l’anno prima. Una sera il geniale ingegnosa e la talentuosa Mitchell erano, con altri, a cena da un amico, e non uno qualsiasi, Peter Tork, bassista dei Monkees, il gruppo «fantasma» fatto più di attori che di musicisti che ebbe una gran vampata di notorietà allo scorci dei Sessanta.
Quella sera Joni Mitchell lasciò pubblicamente David Crosby, e lo fece a modo suo: annunciando a tutti che avrebbe cantato una canzone che sarebbe finita nel suo secondo disco, Clouds, la canzone era That Song About the Midway. Lo fece guardando negli occhi Crosby, e per essere sicura che il messaggio fosse arrivato, gliela cantò una seconda volta. Ha detto Crosby di Joni, a proposito della difficoltà di averla come compagna di vita: «Ascolta, immagina che hai scritto una canzone, e tu sai che è una canzone davvero bella. Lei rientra a casa e tu gliela canti. E poi lei prende la chitarra e ti canta tre canzoni meravigliose che ha scritto di getto la sera precedente». Nessun rancore, comunque, nelle parole di Crosby: «Probabilmente è la migliore cantautrice dei nostri tempi. Non vado più così d’accordo con lei, ma la amo con tutto il mio cuore per quello che ci ha dato».
In un’altra dichiarazione: «Joni arrivò tra noi, ed era turbolenta, eccitante e buffa, e noi tutti la amavamo, Non credo fosse così felice. Aveva avuto la polio, un matrimonio infelice con la nascita di una figlia, e scrivere musica era per lei un modo di elaborare crisi e difficoltà. Era difficile starle accanto: poteva farti piangere e ridere nell’arco di una mezz’ora. Bob Dylan è un poeta bravo come lei, ma Joni è una musicista ben superiore. Blue è un disco intoccabile, non credo si possa immaginare un brano più perfetto di A Case of You. Ci ha messo in crisi tutti, ma ci ha anche dato una ragione per sforzarci a fare meglio le cose».

PETE TOWNSHEND (chitarrista e autore)
Di questi tempi riascolto continuamente un cd di Joni Mitchell che si intitola Travelogue. È una rivisitazione di tutta la sua carriera con un’orchestra a pieni ranghi. Per quanto mi riguarda è una sorta di capolavoro quantistico. Joni Mitchell è ripresa al culmine delle sue potenzialità. E anche i suoi quadri e la sua attività pittorica mi sembrano rivelatori della sua grandezza nello scandagliarsi dentro. Un po’ di tempo fa, dopo che gli Who avevano suonato al Madison Square Garden di New York, qualcuno mi ha detto che Joni non ha in programma di far uscire dischi nuovi. Se così sarà, Il disco di cui parlo rimarrà come un testamento non solo del suo lavoro, ma della grandezza della musica orchestrale americana.

BARBARA RAIMONDI (vocalist e didatta jazz)
Ho conosciuto la musica di Joni Mitchell da adolescente con il disco Blue, acquistato allora da mio fratello nell’unico negozio di dischi che ci fosse nel raggio di 30 km da casa nostra; avevamo entrambi appena scoperto Crosby, Stills e Nash, e tutto il movimento di musica melodica e idealista della West Coast californiana della decade precedente. Era la fine degli anni Settanta e io volevo essere come lei, tutte volevamo essere come lei. Negli anni successivi ho poi continuato ad ascoltare la sua musica, seguendo e facendo mio il suo interesse per il jazz e ho amato praticamente tutto ciò che ha scritto e registrato, tanto da avere una sorta di timore reverenziale a eseguire le sue canzoni. La sua musica è talmente connessa con la sua personalità da rendere molto difficile, per un altro interprete, lavorare su materiale suo: la cover filologica non ha senso, a parer mio, e la rivisitazione rischia di non aggiungere niente a qualcosa che era già perfetto così. La sua capacità di conciliare poesia e comunicativa con melodie e armonie interessanti, complesse, ricche di inventiva ed originalità, ha una cifra creativa unica; credo che Joni Mitchell sia, al pari di Abbey Lincoln, Carla Bley, Carole King, un esempio di musicista donna che è stato di grande ispirazione per tutte quelle della mia generazione, travalicando generi ed etichette. Personalmente, credo abbia rappresentato (e ancora rappresenti) un ideale di libertà espressiva che non si cura di rientrare in una categoria specifica, ma cerca di raccontare una storia che abbia, in sé, una cifra comunicativa universale. Come musicista, mi piacerebbe poter pensare di essermi un po’ avvicinata a questo ideale.

GRAHAM NASH (rocker)
Io e Joni siamo stati una coppia per un paio d’anni, l’ho vista scrivere in casa molte delle canzoni di Blue. Il brano River è la cronaca della fine della nostra storia, e mi ha al contempo rattristato e inebriato, perché è una canzone meravigliosa e lei ha avuto il coraggio di mettersi a nudo l’anima. Considero un tesoro quella relazione. Mi ricordo di essermi allontanato da casa per lasciarle lo spazio per finire My Old Man, che di nuovo mi riguarda. Come racconta la canzone, le avevo chiesto di sposarmi, ma credo che lei l’abbia intesa come la richiesta di uno che voleva la classica moglie che cucina e ti accudisce, e questa non era la mia intenzione. Volevo che fosse libera. Libera di splendere. Joni è una donna affascinante, e sono fiero di essere stato parte della sua vita. Nei prossimi cento anni la gente si ricorderà dei Beatles, di Bob Dylan e di Joni Mitchell.

GREGORY PORTER (vocalist jazz)
Una parte del genio di Joni Mitchell scaturisce dal fatto che non si capisce da dove arrivi. Considerate River, la canzone, che ho sentito usare nelle festività natalizie. Inizia con «Stanno tagliando gli alberi e posizionando le renne». Bene, al di là dell’immagine, progressivamente capisci che lei è spaventosamente infelice e che tutto quello che vorrebbe è un fiume ghiacciato per pattinarci sopra e scacciare via quella finta allegria. Nella sua scrittura c’è una malinconia sofisticata, e così è per la sua immagine pubblica: ci sono ben poche foto in cui sorride. Per me Joni è un’artista che lavora sul confine sottile tra felicità, tristezza, amore, odio, tranquillità e crolli nervosi: che poi è quello che viviamo, perlopiù.

ROSSANA CASALE (vocalist e didatta)
Anche Casale ha dedicato un disco a Mitchell, intitolato semplicemente Joni. Così ne ha parlato in un paio di recenti interviste: «Joni è stata la mia prima guida, il mio primissimo ascolto, insieme ai dischi jazz di mio padre, il fotografo statunitense Giac Casale. Mi chiudevo in salotto e mettevo i suoi album, mi lasciavo trasportare dalle parole dei suoi i testi. Con Woodstock suonata al piano, a sedici anni, sono entrata al Conservatorio a Milano. È stata la mia ispiratrice. Nello stesso periodo in cui stavo registrando Joni lei è ricomparsa così, sul palco, dopo vent’anni. Con una bravura… sembrava un capo indiano alla guida di quel meraviglioso carro. Mi ha molto colpito questa coincidenza.

GUY GARVEY (rocker)
Tra i diciassette e i trent’anni ho vagato tra feste nelle case degli amici, monolocali, stanze trovate all’ultimo momento, appartamenti condivisi. Anche se non l’ammetterei mai, molto spesso ero terrorizzato. Joni era la mia sorella maggiore, il mio puntello saggio, la mia zietta bizzarra che capiva le cose, e stava sempre lì a indicarmi cosa una canzone scritta col cuore riesce a fare. Il brano Blue, che intitola il disco, mi è sempre venuto in mente ogni volta che ho avuto rimpianti, che mi sono sentito messo da parte, sfinito, spaventato. Quando pronuncia le prime parole «Hey Blue, ecco una canzone scritta per te» ho capito che lei era davvero in pena per chi avrebbe ricevuto quelle parole. E le ho fatte mie.

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