«Sono arrivato per la prima volta a Ciambra perché mi avevano rubato la macchina, e mi era stato detto che l’avrei ritrovata lì» ricorda Jonas Carpignano, che nel «quartiere» degli zingari di Gioia Tauro – in Calabria – ha poi ambientato il suo secondo film: A Ciambra appunto. Presentato a Cannes (dove Carpignano aveva portato anche il suo film d’esordio, Mediterranea) alla Quinzaine des Realisateurs, e vincitore dell’Europe Cinema Label, A Ciambra uscirà nelle sale italiane giovedì 31 agosto, con una proiezione in anteprima al Sacher di Roma il 29.

«La chiave per entrare nel quartiere è stato un bambino, Pio, che all’epoca aveva undici anni e che ho conosciuto perché era amico di Koudous: il protagonista di Mediterranea», racconta ancora il regista. E proprio Pio – il bambino «con una giacca di pelle che fumava in continuazione e mi seguiva ovunque» – è il protagonista di A Ciambra, storia di formazione che, tra piccoli furti, la necessità di occuparsi della famiglia mentre il fratello grande Cosimo è in prigione e l’amicizia con Koudous, racconta il suo ingresso nel mondo degli adulti – in quella comunità dove, come gli dice il nonno, «siamo noi contro il mondo». «La forza della comunità è anche il suo limite – dice infatti Carpignano – tra di loro non si tradiscono e non si tradiranno mai, ma questo li penalizza anche nei rapporti col mondo esterno».

Nel raccontare questa storia il regista ha scelto un approccio a metà strada tra il documentario e la finzione: tutti i personaggi interpretano infatti se stessi, ma recitano una sceneggiatura. «Ho scritto A Ciambra pensando a loro, a Pio, quindi nella sceneggiatura dicono cose che gli ho sentito dire personalmente – racconta Carpignano – per esempio c’è una scena in cui la famiglia di Pio chiacchiera durante la cena che sembra molto un documentario. Ma le cose che dicono me le avevano già dette in altre occasioni: quando andavo mi facevo raccontare più volte le cose che mi avevano colpito. Loro non lo sapevano ma stavamo già provando».

Ad aiutare nella ricerca del giusto equilibrio tra finzione e racconto della realtà è intervenuto, racconta ancora il regista, addirittura Martin Scorsese: produttore esecutivo del film. «Non so come gli è arrivata la sceneggiatura, so che ha visto delle foto e un mio cortometraggio precedente, e poi ci è arrivata la notizia che ci avrebbe sostenuto il progetto. Ci ha aiutati lui durante il montaggio a trovare la stesura finale, il giusto equilibrio tra aspetti più documentaristici e la storia».

Italoamericano cresciuto a New York , dove ha anche studiato cinema alla Wesleyan University, Jonas Carpignano dice di avere subito deciso che la sua carriera cinematografica si sarebbe svolta in Italia: «Mio nonno era un regista di Carosello; ho visto i film di Visconti quando avevo 7 anni. Il mio riferimento è sempre stato il cinema italiano. Avrei potuto lavorare negli Stati Uniti, ma per me fare film significava per forza venire in Italia».

E da subito comincia a girare in Calabria, a Gioia Tauro, dove è ambientato anche Mediterranea, il suo film precedente in cui pure compariva il piccolo Pio – oggi quindicenne.
Lui e la sua famiglia, racconta il regista, non sono mai stati ostili alla sua presenza in quanto regista e all’idea di essere raccontati. «Sono più diffidenti nei confronti dei giornalisti, per esempio quelli di Striscia la notizia che vengono a fare i loro servizi sul quartiere e poi spariscono, da cui loro si sentono presi in giro. Con me si facevano problemi a essere filmati in pigiama, o cose del genere, ma i furti non sono qualcosa che vogliono nascondere: li considerano come un lavoro. Addirittura a film finito si sono arrabbiati quando hanno visto che avevo tagliato una scena di furto».
Ma il film evita qualunque lezione morale: «Non ho un messaggio che voglio trasmettere al pubblico. Voglio solo far conoscere questa realtà».