Rivisitando una famosa citazione di Jacques Derrida, in occasione del suo discorso per il Nobel, Jon Fosse ha detto che «le cose più importanti nella vita non si possono dire, ma soltanto scrivere». Proprio attraverso la sua opera letteraria, infatti, l’autore norvegese cerca di dare forma sensibile e percettibile a ciò che altrimenti sfuggirebbe alla nostra comprensione. E l’ultimo romanzo, Un bagliore (tradotto da Margherita Podestà Heir, La Nave di Teseo, pp. 74, € 13,00) non fa eccezione. Chi non avesse mai letto Jon Fosse potrebbe iniziare proprio da qui: in netto contrasto con la sua precedente Settologia, romanzo di oltre mille pagine, qui molti dei temi e degli elementi stilistici dell’autore si ritrovano concentrati in poche pagine.

Maestro del minimalismo sia linguistico che strutturale, Jon Fosse impernia l’intera vicenda di Un bagliore attorno a un singolo, semplice avvenimento: spinto dalla noia, il protagonista della novella decide di mettersi al volante della propria auto e guidare senza meta lungo le strade della campagna norvegese. Raggiunta una foresta, l’auto rimane impantanata: in cerca d’aiuto, l’uomo si addentra tra gli alberi dove non trova traccia di anima viva. Cala il buio, la neve comincia a scendere silenziosa e, mentre il freddo si fa sempre più insostenibile, il protagonista – senza nome – seduto immobile su una pietra, comincia a domandarsi se morirà assiderato. Che sia proprio quello il motivo per cui si è avventurato in quel viaggio senza meta? Che nella noia da cui voleva fuggire non si nasconda se non la necessità di sfuggire alla vita, cercando la morte?

All’improvviso, dalla boscaglia fitta e oscura, emerge un bagliore: una figura luminosa e dai contorni indistinti si muove verso di lui. Se sia un dio o un angelo non è chiaro, e vani saranno i tentativi del protagonista di comprendere la natura dell’entità misteriosa che gli si para davanti. All’incontro con questa illuminazione improvvisa segue l’incontro con gli anziani genitori, anche loro dispersi nella foresta alla ricerca del figlio, e poi l’incontro con una figura enigmatica, senza volto, con indosso abiti eleganti e i piedi nudi affondati nella neve.

Anna-Eva Bergman, «N° 13, Deux nunataks», 1976
Anna-Eva Bergman, «N° 13, Deux nunataks», 1976

In questa trama semplice e scarna, il tema della morte viene introdotto da Jon Fosse tramite una serie di elementi simbolici che suggeriscono l’idea del viaggio, del passaggio da un mondo terreno a un mondo ultraterreno. I tre surreali incontri, nelle profondità della foresta buia e innevata, trasportano l’uomo  in un viaggio metafisico,  che dal mondo dei vivi porta a quello dei morti e, plausibilmente, al cospetto di dio.

L’originalità delle forme letterarie scelte da Jon Fosse mantiene il dialogo con la tradizione, così che dagli echi degli Uccelli di Tarjei Vesaas si passa ai rimandi alla Commedia di Dante, uno tra gli autori che Fosse più ha letto e studiato (dopotutto il protagonista si perde nel bel mezzo di una foresta oscura), tracciando una sottile linea che separa la realtà dal sogno, la vita terrena da quella spirituale. Il minimalismo tipico della scrittura di Jon Fosse si risolve in  frasi brevi e semplici, dove l’uso intensivo delle ripetizioni dona ritmo e musicalità alla lingua, convogliando il senso di urgenza generato dalla paura di una morte imminente; mentre i lunghi monologhi interiori del protagonista sono costellati di domande – rigorosamente senza punto interrogativo – che fanno emergere le incertezze e l’ironia della condizione umana, il cui mistero non domanda di venire decifrato, semmai ammirato nella sua imponente (e dolorosa) bellezza. Nei dialoghi tra i personaggi, le battute si combinano e si intrecciano dando forma a un monologo corale in cui le voci si sovrappongono, in maniera ritmica e circolare, alla febbrile ricerca di un significato che evidenza e allo stesso tempo amplia i limiti del linguaggio. E sta proprio nell’ardore semantico delle sue parole, nel significato che cambia forma e intensità, impedendoci un’interpretazione certa e univoca, la connotazione più peculiare della scrittura di Fosse, che esplora linguisticamente la solitudine umana, facendo emergere la fragile dipendenza dell’individuo dalla comunità, la sua natura vulnerabile e fatalmente mortale.