Jon Fosse, devoto oltre il punto
Scrittori norvegesi In «Settologia» e «Melancholia», i cui protagonisti sono pittori, lo scrittore norvegese si esercita nella scomposizione dell’identità dei personaggi, minacciati da un vuoto di senso: La nave di Teseo
Poiché è convinto che i luoghi nei quali cresciamo influenzano la nostra lingua, inglobando i suoni che ascoltiamo, quale rumore di fondo che è sempre con noi, Jon Fosse ha dichiarato di scrivere tanto per allontanarsi da sé quanto per tenersi vicino ai suoi paesaggi. Dal debutto letterario nel 1983, al Nobel vinto lo scorso ottobre, la sua scrittura ha raggiunto pressoché ogni paese al mondo, e tuttavia Fosse resta uno scrittore del tutto locale, indissolubilmente legato alle proprie origini geografiche, ai paesaggi del Vestlandet, la regione cui appartiene il piccolo paese in cui è nato, un paese adagiato su un’insenatura del fiordo di Hardanger sulla costa occidentale della Norvegia, ai fianchi delle montagne che scendono ripide nell’acqua, tra le poche, sparute case in legno arroccate su quel lembo di terra, i piccoli moli con le barche cullate dal movimento dolce del fiordo.
Tutte le sue opere sono scritte in nynorsk, ovvero ‘nuovo norvegese’, una variante minoritaria ricostruita dal linguista Ivar Aasen nel XIX secolo, e basata sugli antichi dialetti parlati principalmente nelle zone rurali del paese, molto diffusa nella parte occidentale della Norvegia. La lingua nazionale, il norvegese bokmaal (‘lingua del libro’), è invece modellata sul danese, lingua ufficiale per oltre quattro secoli, durante il periodo di dominazione della Danimarca.
È stato il teatro a consacrare Jon Fosse come autore di fama internazionale: dopo Henrik Ibsen, è il drammaturgo norvegese più rappresentato sulle scene teatrali. Se nelle prime pièce teatrali era ancora riconoscibile una struttura piuttosto tradizionale, articolata su unità di tempo, luogo e azione, e improntata al realismo psicologico, a partire dagli anni 2000 lo scrittore norvegese si è avvicinato a soluzioni più sperimentali, esplorando l’assurdismo, componendo drammi in cui il tempo e lo spazio vengono decostruiti, le identità dei personaggi ridotte ai minimi termini, e anche la lingua subisce un processo di radicale spoliazione dal superfluo, ciò che lo ha fatto avvicinare a autori europei come Harold Pinter, Eugène Ionesco, Samuel Beckett.
La scrittura teatrale dello scrittore norvegese è fatta di versi brevi, semplici, dove fa un reiterato uso della pausa e della ripetizione che, in sintonia con le onde nel fiordo, donano ritmo al testo e, allo stesso tempo, agiscono sul livello semantico più profondo delle parole, sgretolandone la funzione, condannando gli spettatori a fronteggiare lo spietato spettacolo derivato dalla quotidiana illusione di comprendersi. Le voci dei (pochissimi) personaggi che popolano i drammi di Jon Fosse si susseguono e poi si mescolano, così che i dialoghi diventano monologhi corali, le fisionomie dei protagonisti non sono più distinguibili, e si scompongono in personalità plurime di un unico Io.
Ma, come ha notato il critico Frode Helmich Pedersen, la scrittura di Jon Fosse raggiunge il proprio apice nelle sue «armoniose prose poetiche»: lo evidenzia l’ultimo lavoro Settologia, pubblicata in Norvegia tra il 2019 e il 2021, che si compone appunto di sette parti suddivise in tre volumi: da noi esce ora il secondo tomo, titolato Io è un altro, che segue L’altro nome (2021), entrambi nella traduzione di Margherita Podestà Heir (La nave di Teseo, pp. 304, € 22,00).
L’intera Settologia racconta la storia di Asle, un anziano pittore che vive in un piccolo villaggio nei pressi del fiordo di Hardanger, sulla costa occidentale della Norvegia. Si avvicina il giorno di Natale, e Asle sperimenta l’isolamento che lo affligge da che la moglie, Ales, è morta. Tra le sue rare frequentazioni, il vicino di casa Aasleik, da cui riceve le tradizionali pinnekjott, le costolette di agnello; e l’amico e omonimo Asle, anche lui un anziano pittore ormai consumato dall’alcool che vive in una cittadina poco lontana, Bjorgvin, versione fittizia di Bergen. Un giorno, l’amico pittore viene ricoverato in ospedale e Asle decide quindi di prendersi cura di lui e del suo cane.
Nel frattempo, Asle sta terminando un dipinto da esporre alla tradizionale mostra di Natale, e durante il lavoro si imbarca in un viaggio nel passato, ricordando la propria infanzia, l’adolescenza, il primo incontro con Ales, il rapporto con la fede, e da qui si imbarca in riflessioni di carattere esistenziale sulla condizione umana, sulla fragilità del destino, sulle cose grandi e piccole che concorrono a indirizzare .una vita verso il buio o verso la luce. Ogni capitolo di Settologia si apre allo stesso modo, con Asle che si domanda come terminare il dipinto, e si conclude allo stesso modo, con una preghiera.
Per tutta la durata di Settologia, Jon Fosse decide di non usare il punto fermo; come nei pezzi teatrali, la narrazione procede tramite i dialoghi dei personaggi, le cui voci si mescolano, si sovrappongono, si intersecano fino a rendere sfocati i confini individuali. Come è facilmente intuibile, i nomi dei personaggi di Settologia sono simili perché i personaggi sono, in realtà, la stessa persona. In particolare, Asle e il suo omonimo, sono due versioni dello stesso uomo, due declinazioni diverse della stessa identità, forgiata da destini diversi. Mentre il protagonista è un pittore di chiara fama che ha condiviso la vita con la donna che ama, l’altro Asle non è mai diventato famoso, ha divorziato dalla propria moglie ed è stato ripudiato dai figli.
L’esistenza speculare dei due Asle induce a indagare cosa muova la fortuna, e cosa il destino di perdersi fino a annientarsi. Anche i piani temporali si mescolano: presente e passato si rincorrono, coesistono e si scambiano di posto, in questo tempo reso poroso. Elemento fondamentale – e forse centrale – nella Settologia, la religione viene spesso evocata dal protagonista, che nel terzo e ultimo volume non ancora tradotto, Eit nytt namn (Un nuovo nome), dirà che «Dipingere è come pregare», affermazione ribadita nell’intervista uscita sul quotidiano norvegese «Vart Land», dove Jon Fosse sostiene che «scrivere è un modo per chiedere perdono».
È un pittore anche il protagonista di Melancholia (traduzione di Cristina Falcinella, già pubblicato da Fandango nel 2009 e ora riproposto da La nave di Teseo, pp. 448, € 22,00). La versione originale norvegese è in due volumi, pubblicati rispettivamente nel 1995 e nel 1996, che raccontano le vicende del pittore paesaggista Lars Hertervig, trapiantato a Dusseldorf, prima rinchiuso in un manicomio e poi morto in completa povertà nel 1902. Tornano i temi che già affollavano le pagine di Settologia – arte, identità, amore – affrontati da Fosse con una prosa che si fa febbrile nell’indagare la mente di Hertervig, sprofondato nella pazzia, consumato dai dubbi sulla propria condizione di artista e dall’amore non corrisposto per una giovane donna, Helene Winckelmann. Novello Leopold Bloom, nella prima sezione del romanzo Hertervig vaga per Düsseldorf in preda alle allucinazioni e alla disperazione, ormai senza più una casa.
Nella seconda parte, un anno dopo, lo troviamo il giorno di Natale, rinchiuso in un ospedale psichiatrico, ancora ossessionato dalla passione per Helene, e censurato nel desiderio di dare una forma artistica al suo pensiero dal direttore dell’ospedale che gli impedisce di dipingere. Più o meno centocinquant’anni dopo, la storia di Hertervig viene raccontata una terza volta dallo scrittore Vidme, che preso da una sorta di afasia artistica, entra nella Galleria Nazionale di Oslo e, di fronte a un quadro di Hertervig, decide di scrivere del pittore. I suoi esercizi di scomposizione della luce dettano a Vidme la dissezione analitica del suo racconto che ne ricombina le fasi della vita, da Jon Fosse immaginata e restituisce attraverso un vorticante e melodico monologo interiore, che si moltiplica attraverso un abile uso delle variazioni.
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