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John Waters il re del trash

John Waters il re del trash

Locarno Film Festival Pardo d'onore al regista di regista di Pink Flamingos e Hairspray, la scientifica costruzione del disgusto

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 3 agosto 2019

Il prossimo Festival di Locarno premierà John Waters con un Pardo d’onore Manor venerdì 16 agosto in piazza Grande, successivamente verrà proiettato, sempre in piazza per la serie Crazy Midnight, il film Cecil B. DeMented che Waters ha diretto nel 2000. Ma l’omaggio prevede anche altri momenti per ricordare la carriera del più eccentrico cantore del cattivo gusto made in Usa. Sono infatti previste anche proiezioni di A Dirty Shame (2004), Female Trouble (1974) e Polyester (1981) presentato in Odorama come avvenne all’epoca dell’uscita. L’Odorama consiste in un cartoncino con diversi tondini numerati che lo spettatore deve grattare quando il numero corrispondente appare sullo schermo. Una volta grattato il cartoncino rilascia l’odore riferito alla scena, naturalmente, trattandosi di John Waters, bisogna essere disposti a correre qualche rischio olfattivo, come quando appaiono maleodoranti scarpe da tennis. Previsto anche un incontro con giovani talenti del cinema selezionati per la Locarno Academy e si può prevedere che ne sentiranno delle belle. Così come il pubblico che sabato 17, allo spazio Cinema, potrà partecipare a una conversazione con lo stesso Waters.

A coronamento dell’omaggio la nuova direttrice artistica Lili Hinstin ha chiesto a Waters di scegliere un film muto per aprire il Festival in musica, in collaborazione con l’Orchestra della Svizzera italiana. E mercoledì 7 verrà proiettato Show People di King Vidor (1928). John Waters ha spiegato così la sua scelta: “Qualsiasi film che faccia ironia su Hollywood, che prenda in giro gli esordi di Gloria Swanson, in cui compaia Marion Davies (la più famosa “amante ufficiale” della storia?), sia diretto da King Vidor (di cui amo specialmente Beyond the Forest e Stella Dallas), e che poi abbia un cameo di Louella Parsons, Charlie Chaplin e Douglas Fairbanks, non può fare schifo. Anzi, mi suona proprio perfetto”.

John Waters è un elegante e raffinato signore di poco più di settanta anni. Chi dovesse vederlo senza sapere chi sia mai potrebbe immaginare che è il regista dei film più trasgressivi, provocatori e deliranti della storia del cinema statunitense. Ha avuto tante definizioni coniate appositamente, Duke of Dirty; Pope of Trash; Prince of Puke; Anal Ambassador, titoli nobiliari o prestigiosi associati a tutto quello che può essere considerato schifoso o volgare. Non per lui che afferma “ci vuole buon gusto per apprezzare il cattivo gusto”, e su questo ha costruito una carriera e un’estetica. L’impertinente Waters ama anche la definizione The King of the Pukes, ma è stato anche definito un “visionario escrementale”, e la sua autobiografia, che risale al 1981, con infinite ristampe successive si intitola Shock Value (il valore dello shock, uscito in Italia per Lindau nel 2000 con il titolo ridotto solo a Shock).

Originario di Baltimora, nato in una famiglia benestante e cattolica, John da subito manifesta tendenze stravaganti. Un giorno origlia un colloquio tra i genitori e mamma dice “non so cosa fare, è proprio strambo”. Definizione che per lui diventa immediatamente motivo di orgoglio. Scrive lui stesso “Fin da quando ero piccolissimo la violenza mi intrigava e io mi sono sempre identificato in quella foto di Diane Arbus di un bambino che tiene in mano una granata giocattolo e storce la bocca in una smorfia di finto terrore”. Così, mentre i suoi coetanei giocano agli indiani e ai cowboys, John, da solo, fantastica di incidenti stradali, lamiere accartocciate, gente insanguinata che chiede aiuto. Anche i suoi genitori sono preoccupati per questa sua mania delle macchinine che si fa regalare in ogni occasione per giocare a “mio dio, c’è stato un incidente terribile”. E continua “Non vedevo l’ora di diventare adolescente perché mi venissero i brufoli. Chiesi insistentemente un apparecchio per i denti ma il dentista non collaborava e insistette con i miei genitori che non ne avevo bisogno. Imperterrito raddrizzai delle graffette da carta e me le misi intorno ai denti e mi sentii molto meglio”. Per non parlare degli sport. Tutti detestabili. Non tutto quel che ha scritto John a suo tempo è vero, ma aiuta a capire il personaggio.

Negli anni ’60 John scopre il cinema, la nonna sapendo della sua passione gli regala una cinepresa Brownie 8 millimetri per il diciassettesimo compleanno. L’intento è quello di tenerlo lontano dai guai in cui il giovane capellone spesso va a sbattere. Così, prima realizza un corto domestico, Hag in a Black Leather Jacket, storia di uno stravagante matrimonio tra una ragazza bianca e un afroamericano con un testimone del Klan. “Terribile”, secondo John, che salva solo il “bodie green” della sua sodale Mary Vivian Pearce, un ballo libidinoso che li aveva, gioiosamente, fatti cacciare dall’associazione della gioventù cattolica. Riesce a organizzare una proiezione in una caffetteria di Baltimora, ricava 30 dollari e copre l’intero costo di produzione. Il film piacicchia. Uno dei commenti più centrati per i suoi film viene dal seriosissimo papà Waters “è stato abbastanza divertente, ma spero di non rivederlo”. Il destino di John è il cinema, ora vuole fare un altro film. In quel periodo incontra una nuova vicina Carol Wernig, dall’aspetto bizzarro e dalle amicizie ancora più improbabili. Tra cui Glenn “un ragazzo estremamente effemminato che adorava Liz Taylor”, preso in giro da tutti a scuola, David Lochary, Pat Moran, Mink Stole, Maelcum Soul e altri squinternati. John sta mettendo insieme la sua personale factory all’insegna della società di produzione Dreamland Studio, che è poi lui stesso. Sono anni di droghe, John è a New York, cacciato dopo tre mesi dall’università dove avrebbe dovuto studiare cinema. L’accusa per lui e altri è: marijuana. Espulsi, niente da fare, verranno i genitori a prenderli. Ma Waters organizza uno scherzetto avvisando la stampa, smorzando l’arroganza dell’università che non vuole pubblicità negativa. Anche l’esercito non lo vuole, per sua fortuna “non riuscivo a immaginarmi con l’uniforme verde a traballare sul retro di una jeep in Vietnam”. Dichiara di essere “alcolista, drogato, omosessuale…” quindi lo mandano da uno psichiatra su sedia a rotelle che lo spedisce subito a casa. In realtà il vero motivo è che John è alto quasi uno e novanta ma pesa solo 52 chili.

John è innamorato di New York, dove campa di espedienti non sempre irreprensibili. Influenzato da The Chelsea Girls di Andy Warhol e Paul Morissey, come omaggio inizia le riprese di Roman Candles, 40 minuti di collage delirante a base di sesso droga e… religione, che ha un grande merito: far debuttare seppure defilato il vulcanico Harris Glenn Milstead, in arte, e da quel momento per sempre, Divine. Per John la ragazza della porta accanto, visto che abita nella stessa via, destinata a diventare una musa e un’icona pop.

Dopo la caffetteria le prime dei suoi film possono essere organizzate grazie a sacerdoti compiacenti o distratti che permettono di utilizzare le loro strutture parrocchiali. Avviene anche per Roman Candles, recensito dal Sun di Baltimora con “la prima delle sue tante bellissime cattive recensioni” dice John. Il passo successivo è una cinepresa 16 millimetri, senza sonoro, con cui gira Eat Your Make Up, titolo preso da uno slogan pubblicitario di caramelle a forma di rossetto “il make up che ti divori”, con una storia di vessazioni nei confronti delle modelle, con Divine attivissimo tra il pubblico delle estenuanti sfilate. Ma diverse traversie per sincronizzare il sonoro, il ricovero di un’attrice uscita di testa per Lsd, e poco dopo la presentazione del film la morte di Maelcum Soul rendono il film un’opera quasi maledetta, non come avrebbe voluto il regista.

Ma John non demorde, per testare il sonoro in presa diretta gira nove minuti di film dal titolo The Diane Linkletter Story, una ragazza morta suicida, figlia di due star dello spettacolo. E finalmente arriva il momento di Mondo Trasho, il primo vero lungometraggio, debitore sin dal titolo al mito di Russ Meyer, autore di Mondo Topless, e ai titoli dei film di explotation made in Italy. Una storia di feticismo fiabesco che però ottiene una lusinghiera citazione di Pauline Kael, famosa critica di The New Yorker, che recensendo il Satyricon lo definisce il Mondo Trasho di Fellini. L’aneddotica ricorda che durante le riprese John viene arrestato con altri della troupe per “cospirazione al fine di commettere atti osceni”. In realtà Divine in auto, una Cadillac decapottabile Eldorado rossa, immagina di vedere un autostoppista nudo. E mentre girano la scena una guardia giurata li vede e li denuncia. Finiscono in carcere, poi liberati su cauzione, infine assolti al processo (non si tratta di pornografia), con i loro avvocati che offrono al giudice due biglietti per l’anteprima e quello che replica “se è brutto come alcuni dei film underground che ho visto a New York, non sono ansioso di vederlo”. Il tutto si risolve in grande pubblicità, pochi hanno visto i suoi film ma molti ormai hanno cominciato a sentire parlare del regista John Waters. Anche sua mamma che leggendo sul Sun un editoriale in cui John viene definito “il principe del vomito” gli dice “Beh, che diventassi il principe del vomito non è proprio ciò che avevamo in mente quando eri piccolo”.

Nel 1970 John dirige Multiple Maniacs, tutto girato nell’appezzamento dei Dreamland studios, il giardino di fronte alla casa dei genitori di John, con i vicini che sbirciano per vedere “una ragazza che annusava e leccava il sellino di una bici, un pornografo che addentava l’inguine di una modella sbronza, due omosessuali veri che si baciavano sulle labbra come amanti e, il mio preferito, il mangiatore di vomito, un giovane gentleman dai capelli cespugliosi che sputava della crema di granoturco in un secchio e poi se la rimangiava”. Il tutto con sequenze in chiesa e altre efferatezze con un finale basato su un’aragosta gigante che stupra Divine. Nel giro entrano due nuove “Water’s Stars”: Susan Lowe e Edith Massey. L’Evening Sun di Baltimora lo recensisce come il più brutto, più rivoltante e più ripugnante dei film di Waters, un “film malato”. Tutto ciò non impedisce che il film circoli in sedici città con proiezioni di mezzanotte. E il Los Angeles Free Press lo recensisce così “il suo umorismo nero come l’ebano va oltre qualunque cosa sia mai stata messa in un film. È fatto con abilità, devastante nel suo umorismo nero, abietto e indecente e spaventosamente attuale, può essere paragonato solo a Freaks di Tod Browning”. La costa Occidentale è entusiasta. E mentre John inizia a dipingersi i suoi tipici baffetti alla Cliff Richards, Divine viene trionfalmente invitata a San Francisco.

Rinfrancati, entusiasti sono tutti pronti per una nuova avventura destinata a diventare più che cult: Pink Flamingos. Una gara tra due nuclei famigliari per contendersi il titolo di famiglia più schifosa del mondo. Tra i momenti indimenticabili ci sono: un uomo che controlla e muove lo sfintere anale come fosse una bocca, Edith Massey debordante, in guêpière, in un box per bambini che chiede uova in continuazione, un coito con un pollo a fare da terzo (in)comodo e il famosissimo finale con Divine che, senza stacchi, mangia davvero una cacca di cane. Per quest’ultima scena Divine fece tutto senza scomporsi, salvo sputacchiare dopo lo stop affermando “adesso so di essere pazza”. La New Line prende il film per distribuirlo, ma non sa come. Lo tiene congelato per un anno sino a provare una proiezione di mezzanotte al mitico Elgin di Manhattan, su istigazione di John. Sala non piena, ma entusiasta. Si decide di replicare la settimana successiva. Questa volta fuori c’è la coda. Poi sono due, tre, quattro, sette repliche a settimana, tutte esaurite. Il New York Magazine lo definisce “il film americano più vicino a Un chien andalou di Luis Buñuel”, Interview, la rivista di Andy Warhol “uno dei film più malati mai fatti. E uno dei più divertenti”. Ma il paludato Vincent Canby del New York Times lo demolisce però per ben due volte, mentre Variety non ne parla per un anno e alla fine stigmatizza “la feccia della perversione umana attira gli strambi. Mostruoso”. Il film viene venduto in tutto il mondo e rimane in cartellone

Da allora John ha firmato molti altri film, Female Trouble (74), Desperate Living (77, Nuovo punk story), Polyester (81), Hairspray (88), l’ultimo film con Divine protagonista prima della sua scomparsa. Ne è stato fatto anche un remake nel 2007 con John Travolta nei panni oversize di Divine e una versione musicale che ha trionfato a Broadway. Poi sono venuti Cry Baby (90), Serial Mom (94, La signora ammazzacattivi), Pecker (98), Cecil B. Demented (2000, A morte Hollywood), A Dirty Shame (2004).

Nel frattempo i suoi film hanno fatto bella mostra nei musei più prestigiosi, nelle rassegne più importanti, gli hanno permesso di prendersi diverse rivincite come quella di tornare da docente alla New York University che lo aveva malamente cacciato. Non solo ha organizzato una mostra dal titolo Director’s Cut che ha girato nelle gallerie d’arte di mezzo mondo portando il suo personale pensiero sul cinema a base di frammenti e altri accostamenti fantastici. Poi, chi fosse interessato, può sempre approfondire con This Filthy World, il documentario che Jeff Garlin ha dedicato all’omonimo one man show di John che parla a ruota libera, andato in scena per un paio di sere nel 2006 all’Harry DeJour Playhouse di New York, ripreso più recentemente in Australia.

Qualcuno ha detto che John non è più trasgressivo come un tempo. Lui aveva già risposto molti anni fa “essere folle quando sei giovane è sexy, esserlo a una certa età è penoso. Sono imbarazzato nell’ammettere che non fumo neanche più sigarette”.

JOHN WATERS E IL MANIFESTO

(estratto da un articolo di Antonello Catacchio del manifesto  8 aprile 2009)

Oggi John Waters, nonostante benpensanti e neocon è questo: l’uomo che con la sua magnifica irriverenza è diventato un personaggio di culto, anche presso la natia e bigotta Baltimora dove una serie di luoghi tipici dei suoi film (praticamente girati tutti sul posto) e delle sue frequentazioni, si sono trasformati in piccoli santuari del principe degli schifosi. Nel tentativo di yuppizzare un personaggio impossibile da inquadrare. Eppure il giornale che state leggendo è riuscito a stupire questo singolare artista che tante ne ha viste e tante ne ha mostrate. Già perché nonostante tutto, la controcultura, la provocazione etc. John è inequivocabilmente figlio di Baltimora, magari stravagante, ma quelle sono le sue radici e lì sta la sua formazione che poi ha trasformato quel mondo come se fosse osservato da un deformante buco della serratura. Nel 1983 John arrivò in Italia in occasione di una personale a lui dedicata nell’ambito di una rassegna sul cinema indipendente americano. (…). Il suo stupore stava tutto nel fatto di essere intervistato e apprezzato da un giornale che si professa(va) comunista. L’idea di comunismo negli Usa era in tutta evidenza quella legata ai regimi totalitari dell’Est europeo, con cani da guardia disseminati ovunque pur di arrivare a censurare qualsiasi cosa venisse intesa come fuori dalla glorificazione del partito. Per John era quindi una sorta di cortocircuito di senso assolutamente imprevedibile. Ma, superato lo stupore e lo smarrimento iniziale, ha colto perfettamente il senso di quell’approccio che consisteva nel non essere allineati, esattamente come lui. E quel “comunista” è diventato una sorta di marchio positivo, esattamente come quelli che gli venivano attribuiti pur pescati negli ambiti più schifosi che si possano immaginare. Era arrivato anche a farsi fotografare con questo giornale e crediamo che quello stupore sia stato oggetto di diverse chiacchiere una volta tornato in patria.

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