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John Sinclair, tra versi e musica l’utopia libertaria di Detroit

John Sinclair, tra versi e musica l’utopia libertaria di DetroitJohn Sinclair – foto GettyImages

Icone È morto a 82 anni il manager, poeta, dj, attivista. John Lennon cantò per la sua scarcerazione. Il sodalizio con gli Mc5, le azioni contro la guerra in Vietnam, le White Panters e i dischi spoken word

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 4 aprile 2024

Un riconosciuto genio dell’Altra America se ne è andato. John Sinclair, l’ultimo poeta beatnik combattente, ha varcato le porte dell’ignoto a 82 anni, per un problema cardiaco. Il suo nome è indissolubilmente legato alla meravigliosa stagione della controcultura hippie sebbene Sinclair sia stato agitatore culturale, attivista per i diritti civili, fautore della legalizzazione della cannabis, grande cultore di blues e jazz per tutta la vita, in prima linea in tutte le battaglie contro il perbenismo ipocrita e le politiche reazionarie (scavò delle grandi buche nei campus universitari, ai tempi della guerra del Vietnam, per rendere visibili i crateri prodotti dai bombardamenti americani).

CRESCIUTO in una cittadina di provincia di bianchi, Flint nel Michigan, non lontano dalla città dell’automobile, Detroit, dove regnavano Ford e General Motors, fu abbagliato e sconvolto da Kerouac, Ginsberg e dalla beat generation. «Per tutta la mia vita ho cercato di vivere in quel mondo, dove le persone parlavano, fumavano erba, ascoltavano jazz. Non avevamo soldi ma non importava. Al massimo servivano a trovare da fumare, non interessavano a nessuno, E lì sono rimasto. Non ho ceduto. Anche in galera, mentalmente ero sempre lì». Nel 1969 è stato arrestato e condannato a dieci anni di reclusione per aver offerto due spinelli a degli agenti della narcotici infiltratisi nella comune dove viveva con moglie, figli e amici. «They gave him ten for two, what more can the judges do? Gotta, gotta, set him free», cantava John Lennon in John Sinclair, la canzone che gli aveva dedicato nell’album Some Time in New York City. Il suo caso scatenò una imponente campagna mediatica culminata nel megaconcerto per la sua libertà con John Lennon & Yoko Ono, Stevie Wonder, Bob Seger, Phil Ochs, Archie Shepp, Allen Ginsberg and Bobby Seale, portando alla scarcerazione nel dicembre 1971, tre giorni dopo l’evento.

Deejay radiofonico e rapsodo verseggiatore, fondò il giornale underground «Detroit Fifth Estate» e divenne manager degli MC5 (i cinque di Motor City), band antesignana del movimento punk, quelli di «Kick out the jams, motherfuckers» (Fuori dalle palle, fottutissimi stronzi), diventato un inno del dissenso fatto con stile rivoluzionario e potente miscela rock tanto da esibirsi davanti alla Convenzione Democratica di Chicago, una manifestazione di protesta contro la guerra nel Vietnam. Il gruppo guidato dai chitarristi Wayne Kramer e Fred Sonic Smith fu ampiamente boicottato dalle case discografiche e durò pochi anni. La battaglia di Sinclair contro il complesso militar-industriale americano e contro il consumismo dilagante non si fermò (i cartelloni pubblicitari di Detroit vennero coperti con le parole di una canzone degli Youngbloods – «Come on people now/Smile on your brother/Everybody get together/Try to love one another right now» (Fatevi avanti adesso, sorridete ai fratelli, ognuno si unisca agli altri, da questo istante provate ad amarvi). Fondatore delle White Panthers Party, l’equivalente studentesco bianco delle Pantere Nere afroamericane, giornalista per «DownBeat», rivista sostenitrice del free jazz, poeta e scrittore noto per la sua radicale attività politica, preso di mira da Fbi e Nixon.
Nella decadente America d’oggi whisky, fucili automatici e pistole sono ok, gli spinelli no. Il rock n roll dopo i ’60 è diventato musica per ricchiJohn Sinclair
NELLA SUA LUNGA permanenza ad Amsterdam (dove si è trasferito all’inizio degli anni Duemila salvo tornare negli States dopo una decina d’anni) questo gran sacerdote hipster ha fatto numerosi reading poetici in compagnia della sua band, The Blues Scholars, ha inciso dischi di spoken word (ha disegnato copertine di vinile e scritto le note esplicative)e ha tenuto lezioni universitarie sul jazz. Il regista Steve Gebhart ha realizzato un film sulla sua vita, Twenty to life: the life & time of John Sinclair (2004), un documentario sulle amate radici afroamericane dell’arte e della musica che l’hanno colpito sin da bambino. Sinclair accompagna lo spettatore attraverso la decadenza della Motor City («un relitto di città, i neri sono stati buttati fuori, molte generazioni non hanno mai avuto un lavoro»), i luoghi delle utopie controculturali e la suprema vitalità della black culture.

IN UN’INTERVISTA di una decina d’anni fa al «manifesto», si definì «comunista non dogmatico» e sparò sulla scena musicale attuale: «Mi piaceva il rock and roll negli anni Sessanta, pensavo fosse l’antesignano di qualcosa di diverso, di un profondo mutamento della società. Ma dalla metà degli anni Settanta in poi quel sogno e quella musica l’hanno spenta, è diventata musica per ricchi». E aggiunse «nella decadente cultura nordamericana d’oggi, whisky, fucili automatici e pistole sono ok, gli spinelli no». Con una grande popolazione carceraria, in larga parte imprigionata per problemi di droga. «Quando vai alla Cannabis Cup ad Amsterdam/ arriva gente da ogni parte del mondo/per premiare la marijuana più buona/cresciuta dalle ditte di semi olandesi (…) Ehi che bello, andiamocene al coffee shop/ e ordinate qualsiasi tipo di erba/ o hashish vogliate fumare/perché è tutta buona/ è tutta roba buona» (da It’s All Good).

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